Non sempre le carriere dei grandi giocatori sono fatte di porte aperte. Joe Launchbury, seconda linea dei Wasps, ad un certo punto faceva altro. Tutt’altro.
Quando il rugby ti chiude la porta in faccia, non è sempre detto che quella porta non si possa sfondare. L’Anonima Piloni vi racconta la storia di Joe Launchbury, seconda linea inglese dei London Wasps, che non ha mollato nemmeno quando sbarcava il lunario al supermercato.
Twickenham ruggisce sulle ultime note di God Save the Queen, sa già quel che sta per succedere. Non è difficile, sapete, indovinare cosa prevede il copione prima di un match contro gli All Blacks, quando sono appena terminati gli inni. Haka o Kapa o Pango, dipende dal vostro pedigree e da quel che vogliono farne loro, quelli là vestiti di nero. A Roma hanno sfoderato la classica Haka, davanti ad un pubblico che dopo venti minuti comincia a fare la ola così, per sport, è più che sufficiente. Gli inglesi sono temuti, hanno perso male contro l’Australia e un po’ meglio contro gli Springboks, ma sono pur sempre gli inglesi. Kapa O Pango, con tanto di taglio di gola finale. Dirige l’orchestra Piri Weepu. Sono cattivi, minacciosi, ma Twickenham è già partito con la specialità della casa, Swing low, Sweet Chariot.
È uno dei modi che hanno gli avversari di esorcizzare quella danza di guerra cruenta, mortifera che allo stesso tempo dà linfa vitale a chi la mette in scena. David Campese, fenomeno australiano, si allontanò dai suoi compagni e si mise a palleggiare con l’ovale. I gallesi nel 2008 non volevano cedere il passo ai neozelandesi e per tre minuti il Millennium Stadium divenne incandescente. Gli inglesi sugli spalti cantano, quelli in campo osservano. Qualcuno ostenta superiorità (sono inglesi, vanno capiti), alcuni sono troppo concentrati e vedono solamente dei mastini agitati e vestiti di nero. Manu Tuilagi, che è un samoano, li sfida a distanza.
Poi c’è uno spilungone, distante due centimetri dai due metri, 122 chili di muscoli e di zazzera bionda. È nato nel 1991, ha soli 21 anni e ha collezionato tre caps, di cui uno da titolare, l’ultimo, contro gli Springboks. Ventuno anni non sono molti nel rugby, in certi casi sono l’età giusta per spiccare il volo, per iniziare una carriera da predestinato o comunque da giocatore, come si diceva un tempo, di altissimo lignaggio. A 21 anni sei appena uscito, se sei stato bravo, dalle nazionali giovanili, hai già assaggiato il pane dell’alto livello e hai saputo reggere l’urto, pur riflettendo allo specchio l’immagine del ragazzino di sempre. Sono pochi ventun anni, se si guarda a una carriera internazionale. E a volte 21 anni sono niente, se messi di fronte alla vastità di carica agonistica e di lucido furore che può trasmettere una Kapa o Pango. Ma no, non è questo il caso. No, in pochi direbbero che Joe Lauchbury, possessore dei centimetri e dei chili qua sopra srotolati, abbia solamente 21 anni. Nel senso che se li è guadagnati tutti, nel pianeta ovale. A cominciare dal 2009, anno in cui rappresenta l’Inghilterra under 18 e perde la finale dell’Europeo contro la Francia.
Quella inglese è una signora squadra: ci sono Owen Farrell, George Ford, i fratelli Vunipola, Andy Short, Christian Wade. E Joe Launchbury, che è una signora seconda linea: quadrata, pratica, legge il gioco in touche avversario come pochi sanno fare. E, particolare non da poco, ha agilità a sufficienza per giocare anche in tutti i ruoli possibili della terza linea. Almeno, lo fa e anche bene nell’Accademia degli Harlequins. Bene però non basta, visto che gli Harlequins non gli propongono un contratto da professionista. Ciao, grazie, ma ne abbiamo scelti altri. Il responsabile dell’Accademia è Tony Diprose, ex terza linea anche della Nazionale, cappato ed incappato nel famigerato Tour of Hell.
No, aspettate, non prendetevela con lui. Non è come quelli della Decca Records, quelli che dissero che i Beatles non avrebbero mai fatto strada. Né come quelli che vendettero le proprie percentuali di una famosa industria di frutta, la Apple.
No, semplicemente non lo vedeva, capita. Joe torna a casa, a Exeter, va al Sainsbury’s. No, non cercatelo, non è una squadra. È una catena di supermercati. Va a fare il commesso, deve sbarcare il lunario. Nella storia, per fortuna nostra e vostra, entra però Andy Turner, suo allenatore al college, che gli trova qualche scampolo di ovale al Worthing, quarta serie inglese, la periferia del rugby che conta. Non è che serva poi molto per capire che da quelle parti uno così è arrivato per caso: al primo match contro il Barnes riceve palla dall’apertura, carica pesante e ricicla. L’ovale carambola a terra, non lo raccoglie nessuno dai compagni. Ma attenzione, non è che fosse sbagliato il passaggio, è che gli altri proprio non avevano il passo per essere lì, sul punto di caduta. Will Green, allenatore di quel Worthing e amico di Andy Turner, si rende conto che quello sbarbatello è passato di lì, a Worthing e dintorni, per puro caso. Gli è grato, parecchio grato. Ma siccome questo Joe potrebbe essere utile anche a qualcun altro Green fa un paio di chiamate: “Ragazzi, c’è qualcuno che dovreste vedere”.
E qualcuno arriva. Trevor Woodman, per la precisione. Che ha in bacheca una Coppa del Mondo e con Green qualche testata, in prima linea, se l’è pure scambiata. Woodman è l’allenatore dei London Wasps, e quel ragazzone se lo guarda per bene, nei filmati e dal vivo, poi si pronuncia. “Anche domani”. E succede veramente, perché Joe Launchbury nel 2010 molla supermercato, Worthing e dilettantismo e firma fino al 2015. Viene “parcheggiato” al Rosslyn Park per qualche mese, ma a gennaio è a disposizione in Premiership. E a giugno è in Italia per il Mondiale under 20 in cui l’Inghilterra è uno squadrone, ma in finale si trova davanti i Baby Blacks di Beauden Barrett, Charles Piutau, Lima Sopoaga, TJ Perenara e altri. Gli inglesi lottano, ma il titolo vola nell’altro emisfero.
Ad ottobre va in scena la Coppa del Mondo, gli uomini di Martin Johnson escono ai quarti e comincia il ricambio generazionale. In panca arriva Stuart Lancaster, coach dei Saracens, che si porta in bianco vari ragazzi protagonisti nei campionati giovanili. Non tutti al Sei Nazioni, periodo ancora di transizione tra il vecchio e il nuovo, la vera nouvelle vague si vede a novembre e corrisponde con l’inaugurazione del nuovo volto di Twickenham. Joe Launchbury riceve la convocazione per il novembre ovale e debutta dalla panchina contro le isole Fiji e contro l’Australia. Poi è titolare contro il Sudafrica e si prenderà la soddisfazione di affrontare e portare fuori a muso duro il suo dirimpettaio e coetaneo Eben Etzebeth, reo di aver reagito a una maul che non era andata come nei suoi desideri. Ha carattere, il ragazzo, lo dimostrerà anche quando, qualche mese dopo, prenderà alle brutte un monumento come Carlo Festuccia, compagno di squadra troppo attaccato ad un avversario nel breakdown. E anche quando salverà la sua Nazionale da Dave Kearney, ala irlandese già lanciata verso la meta, con una francesina da manuale. A spiegare che quando c’è il carattere anche una seconda linea a prima vista rude e corpacciuta può fermare i cavalli di razza.
Nel frattempo entrano in campo gli All Blacks per il quarto match inglese dell’autunno. Twickenham ruggisce sulle ultime note di God Save the Queen, sa già quel che sta per succedere. Haka o Kapa o Pango, dipende dal vostro pedigree e da quel che vogliono farne loro, quelli là vestiti di nero. Kapa O Pango, con tanto di taglio di gola finale. Dirige l’orchestra Piri Weepu. Sono cattivi, minacciosi, ma Twickenham è già partito con la specialità della casa, Swing low, Sweet Chariot. Gli inglesi sugli spalti cantano, quelli in campo osservano. Qualcuno ostenta superiorità (sono inglesi, vanno capiti ancora), alcuni sono troppo concentrati e vedono solamente dei mastini agitati e vestiti di nero. Manu Tuilagi, che è un samoano, li sfida a distanza. Poi c’è Joe. Due metri meno due centimetri, 122 chili, zazzera bionda. E ventun anni fatti a placcare, saltare in touche, casomai correre. A sentirsi dire no, a pulire scaffali e pavimenti in una catena di supermercati. A ripartire dalla cayenna del rugby che conta. E risalire. Casomai battere gli All Blacks.
Joe Launchbury aveva 21 anni, nel freddo eppure caldo autunno ovale di Twickenham.
Ma nessuno pare essersene reso conto.
Cristian Lovisetto – Anonima Piloni
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