La prestazione di Dan Carter nel secondo test contro i British & Irish Lions del 2005 resta una delle dimostrazioni di superiorità più nitide e complete che la storia ovale ricordi
Dan Carter ha da poco annunciato il suo ritiro dal mondo del rugby. L’Anonima Piloni lo ricorda nella serata in cui tutti si resero conto che, nei mondi ovali, era nata una nuova stella.
Molti avrebbero voluto essere Clive Woodward, quando in Inghilterra andava tutto bene: si espugnava la Nuova Zelanda, si batteva il Sudafrica in trasferta, si portava per la prima volta la Coppa del Mondo nell’emisfero boreale, si faceva vedere al mondo che una squadra non più verde poteva comunque salire sul tetto ovale. Molti di questi, però, si sono dileguati appena qualcosa ha cominciato a non girare più come prima: non è che sia passato poi molto, da quel novembre del 2003.
Sono però cambiate tante cose da quel drop di Wilkinson e dal vano tuffo di Phil Waugh.
Prendete l’Inghilterra, per esempio: dopo il Mondiale non ne ha più indovinata una. Il ricambio generazionale non è stato né pronto né efficace, Jonny Wilkinson è caduto in una spirale di infortuni e in un angolo di campo ancora troppo spesso insondabile dal resto del mondo. Nel 2005 Woodward lascia la Nazionale e prende in mano i British and Irish Lions, li dovrà guidare in Nuova Zelanda. Non è capitato a molti di giocare e allenare la selezione britannica nel corso di una sola vita: nel 1983 fu uno degli ultimi a cedere di fronte allo strapotere dei padroni di casa, ventidue anni dopo vuole creare un gruppo in grado di andare e portare a casa il tour.
Vuole fare le cose in grande, da uomo che vuole vincere. Ma commette tutti gli errori che un uomo di mezza età intelligente e vanitoso può fare. Il primo: vuole dare fiducia ai suoi uomini del 2003. Il primo gruppo dei selezionati, infatti, è composto per la maggior parte da giocatori inglesi. Che non sarebbe nemmeno una brutta idea, se si fosse ancora nel 2003. Non se si è nel 2005 e parte di quei giocatori non può più ripetere i livelli di quella Coppa del Mondo.
Anche perché quella la chiamavano la Dads’ Army, l’armata dei papà, e due anni in più sul groppone cominciano a diventare pesanti. La cosa diventa palese durante il primo test contro gli All Blacks: i padroni di casa fanno realmente quello che vogliono, potrebbero segnare almeno altre due o tre mete rispetto a quanto presente a referto. No, quei Lions non possono competere. Il match però passerà alla storia per quel che succede dopo soli due minuti: Mealamu e Umaga piantano a terra come un ombrellone Brian O’Driscoll, l’irlandese si lussa una spalla e deve dire addio al tour.
Il commissioner non troverà nulla di irregolare e non squalificherà i due, ma dall’altra parte succede il finimondo. Anche perché a mettere pepe sulla vicenda ci pensa Alastair Campbell, ex spin doctor di Tony Blair al 10 di Downing Street, fortemente voluto da Woodward come gran visir della stampa. Un politico fatto e finito che, da par suo, fa partire una vera e propria guerra mediatica contro gli All Blacks.
Ecco, se c’era un modo per far concentrare ancora di più i padroni di casa era proprio quello di scatenargli contro tutta questa tempesta. In molti tra i titolari del secondo test, infatti, testimonieranno che nello spogliatoio, quella sera, tutti volevano far qualcosa per capitan Tana.
Eh, lo faranno bene.
Anche se, forse, non c’era il bisogno di trovar loro altri incentivi per vincere.
Soprattutto se, tra gli uomini di Graham Henry, c’è qualcuno in grado di mettere in discussione quel concetto secondo cui, nel rugby, si gioca, si vince e si perde in quindici.
Ma andiamo con ordine.
Henry prende in mano gli All Blacks dopo una Coppa del Mondo in cui i neri erano partiti papi per ritrovarsi cardinali. Erano una squadra fortissima davanti, funambolica dietro, ma improvvisamente fragile quando si è ritrovata davanti l’Australia di Eddie Jones. Non cambia tutto subito, Henry, il Tri Nations del 2004 lo fa con la vecchia guardia. Poi, in autunno, inizia le grandi manovre. Tira fuori dal cilindro Conrad Smith, un cervello fuori scala per chiunque. Rimette ordine davanti. Poi si trova ad avere a che fare con il rebus più grande: Carlos Spencer e Andrew Mehrtens sono in declino, serve un mediano di apertura degno di questo nome. Eh, dura tirarne fuori uno che non sia degno: Nick Evans, Luke McAlister, Tusi Pisi. In lizza ci sarebbe pure David Hill, visto anche a Calvisano e a lungo corteggiato pure dalla nostra Nazionale per via dei natali materni, ma viene “parcheggiato” con i Maori All Blacks.
La lista sarebbe lunghissima, basti pensare che un genio come Aaron Mauger, che sarebbe un ottimo numero 10 in ogni angolo del globo terracqueo, in mediana a quei livelli non ci giocherà mai. Henry sceglie l’ex primo centro della Nazionale di Mitchell, il figlio di Neville Carter, ex utility back di discreta levatura a Canterbury e dintorni. Neville, per tenere a bada moglie e suppellettili di casa, dovette costruire dietro casa un paio di pali da rugby per distrarre il figlio, che si dilettava calciando discreti oggetti volanti non identificati nel cielo di Southbridge.
È fatta, Daniel Carter sarà il prossimo numero 10 degli All Blacks.
Il ragazzo è veramente forte, ma in patria qualcuno solleva dubbi a riguardo. Dicono sia troppo giovane, che forse non è ancora pronto. Che sì, in autunno ha giocato bene, ma che gli Springboks, i Wallabies e i Lions non sono l’Italia.
Henry fa spallucce e lo fa giocare a Christchurch, a casa sua, nel primo test coi britannici. Non è una gran serata per mettersi in mostra: la pioggia copre tutto per tutti gli ottanta minuti, i Lions sono scelti e schierati male, c’è la netta sensazione che ad un certo punto i tuttineri tirino i remi in barca. Carter, tra le altre cose, distribuisce un paio di gioielli al piede che avrebbero potuto essere altrettanti assist, non fosse stato per un terreno più da canoa che da tacchetti. La prestazione, per molti, resta “normale”.
Poi ci pensano Woodward, Campbell e la stampa ospite a fare il resto: Umaga e Mealamu vengono additati come nemici giurati davanti all’opinione pubblica, è il loro vile atto ad aver fatto perdere i Lions nella pioggia.
Non è vero. O meglio: il fallo è parecchio evidente, oggi si parlerebbe tranquillamente di doppio cartellino rosso. Ma O’Driscoll o non O’Driscoll, gli ospiti non avrebbero mai potuto vincere il primo test.
E se non l’hanno capito la prima volta, nello spogliatoio neozelandese pensano che forse è il caso di ripetersi nella bolgia di Wellington.
Il secondo test, quindi, diventa la partita della verità. Anche perché Woodward si è reso conto che qualcuno dei suoi campioni del mondo non può più tenere quel tipo di palco, e allora si affida ai gallesi. Sposta Wilkinson in mediana, mette Gareth Thomas e Gavin Henson centri, Shane Williams ala. Tiene inspiegabilmente in panchina Martyn Williams per Moody, in seconda si affida a O’Callaghan e a O’Connell, il meglio che l’Europa ovale possa offrire. E la differenza si vede subito: la mischia è molto più solida, i raggruppamenti sono un’altra cosa, al largo è un’altra musica. Thomas, che è pure diventato capitano, prende un angolo interno da straccio della patente e schiaccia in mezzo ai pali, Wilkinson aggiunge i due punti, 7 a 0.
Vuoi vedere che abbiamo finalmente una sfida di questo nome?
Potrebbe anche essere, se nel rugby ci fossero sempre quindici uomini per squadra.
Al Westpac Stadium, da questo momento in poi, in campo ci sono quattordici neozelandesi umani. Uno di loro, infatti, smette i panni del terrestre e comincia a dar prova di essere altro.
Esatto, Dan Carter.
Nei primi quindici minuti di partita ha toccato pochissimi palloni: due calci tra i pali per accorciare le distanze, un calcio passaggio che ha mandato in crisi i Lions, un paio di liberazioni. Bene eh, soprattutto se si considera che Jonny Wilkinson, di là, pur ancora fisicamente lontano dai bei tempi, è un bel convitato di pietra. Poi, però, succede che Gareth Thomas perde un pallone a contatto poco fuori dai 22 dei padroni di casa. Sul pallone si avventa Umaga, che serve il suo numero 10. I Lions si stanno rischierando anche abbastanza velocemente, davanti a Carter si parano Josh Lewsey, l’estremo inglese, e Gavin Henson, uno dei giocatori più forti dell’emisfero nord quando quelli che gli stanno attorno fanno sparire gli specchi. Quello travestito da umano prende e passa letteralmente in mezzo ai due. Che ci provano a placcarlo, ma è già oltre. Henson lo insegue, ma quello lì è già arrivato nei 22, davanti ha solamente Shane Williams. Il folletto gallese lo rallenta, permette il rientro dei compagni, ma non può far nulla quando le mani di Carter rilasciano il pallone ad Umaga, che deve solamente schiacciare.
Eh, e adesso?
I Lions si parlano. È dura, ma siamo ancora a contatto, sembrano dirsi.
La partita diventa feroce, i contatti sono violentissimi, l’arbitro deve sedare più di un tafferuglio a metà campo. Nel frattempo Carter e Wilkinson si scambiano tre punti alla volta. Non c’è troppa luce tra le due squadre, finora. Poi Byron Kelleher trova un varco e viene fermato a centimetri dalla linea di meta. Gareth Thomas lo costringe a trattenere il pallone, ma l’arbitro concede la mischia agli All Blacks. La contesa è dura, poi il pallone viene allargato del tutto. A beneficiarne è Sitiveni Sivivatu, ala scippata alle Fiji dopo che aveva segnato due mete ai neri con la maglia dei Pacific Islanders. Lewsey e Shane Williams ci provano, ma è un confronto senza storia, 21 a 13. I padroni di casa accelerano, sentono che è arrivato il momento di ferire in profondità gli avversari, ma qualche slancio non di poco conto dei Lions salva il tabellone da sconquassi che un intervallo non potrebbe mai risanare del tutto.
Ma è dura, durissima rimettere in piedi una partita del genere. Perché se fosse solamente una questione tra umani con un discreto talento ovale, forse, qualche possibilità ci sarebbe ancora.
Purtroppo per loro, tra gli uomini di Graham Henry, c’è qualcuno che con gli umani ha poco a che fare.
Perché Dan Carter, forse, per ottanta minuti è solamente un travestimento, come Michael Jordan ai Bulls.
E ad inizio ripresa si manifesta ancora. Prima indirizza tra i pali un calcio, poi dà le ultime pennellate alla sua personalissima Venere di Botticelli. Buona parte del merito ce l’ha Rodney So’oialo, che attacca la linea da primo uomo in piedi e assorbe due uomini. Poi serve il suo numero 10 all’esterno. Si muove in una fetta d’erba di mezzo metro, forse meno. svernicia Shane Williams, poi si trova davanti Josh Lewsey. L’impatto sembrerebbe quasi inevitabile, l’estremo inglese tatticamente è al posto giusto al momento giusto, ma Carter è già oltre con un grubber. L’ovale rimbalza sempre sulla stessa verticale e oltrepassa la linea di meta, il neozelandese si tuffa e lo schiaccia.
Arbitro e guardalinee si consultano, non capiscono se la linea è stata toccata prima o dopo che la palla è stata schiacciata, poi si decidono: meta. Viene giù praticamente di tutto, anche perché qualche secondo dopo aggiunge una trasformazione di quelle che provi in allenamento, ma che di solito in campo non vengono mai, vuoi per la pressione, vuoi perché tutta quella gente un minimo di soggezione te la mette, vuoi perché la partita non è un allenamento.
Eh, ditelo a quello lì, fa 31 a 13, la partita è di fatto finita.
La partita, non lo spettacolo.
Perché i Lions non sono quelli di Christchurch e ci mettono orgoglio e attributi: attaccano da tutte le parti del campo, provano ad andare oltre in qualsiasi modo.
Gli All Blacks riconoscono l’onore britannico.
E, per contraccambiare, aumentano i giri.
Perché nessuno, in quel momento, vuole essere da meno di Dan Carter.
Le terze linee, per esempio, perché un reparto composto da So’oialo, McCaw e Jerry Collins non lascia prigionieri. Mealamu, che in qualsiasi altra parte del mondo per movenze e tempi di reazione avrebbe potuto essere un trequarti. I piloni, troppo spesso sottovalutati, ma che mai hanno mandato in sofferenza il resto della compagnia. Kelleher, vera spina nel fianco dei Lions. Gear, Sivivatu e Muliaina, sempre in sostegno. Capitan Umaga e Mauger, che per materia grigia e competenze potrebbe essere una fenomenale apertura in tutti gli angoli del mondo, ma che a Wellington preferisce tenersi un posto gratis in prima fila per godersi lo spettacolo del suo numero 10.
Se a tutto questo ci aggiungiamo un Ali Williams talmente superiore dal permettersi un calcio di liberazione di 50 metri, beh, forse capirete cosa siano stati gli All blacks sotto i cieli di Wellington.
Ecco, però Carter ha ancora qualcosa da dire.
Prima si guadagna un calcio di punizione lasciando sul posto Lewsey e Wilkinson e provocando il tenuto, poi segna un’altra meta lasciando sul posto tutti con una internata da applausi. Va vicinissimo a segnarne un altro paio, ma Easterby, che nel frattempo ha segnato la seconda meta dei Lions, si immola in entrambe le occasioni a pochi centimetri dalla linea.
Chiude i conti Richie McCaw, finisce 48 a 18.
I detrattori di Dan Carter, di quel fragile e belloccio numero 10 considerato forse ancora non troppo pronto per un palcoscenico del genere, non hanno lasciato troppe tracce.
Perché tutti, quella sera, avrebbero voluto essere Dan Carter.
Clive Woodward, invece, proseguì solo.
Anche abbastanza ingloriosamente, a conti fatti: solo un grande allenatore riesce a rivoltare una squadra come un calzino nel giro di una settimana, trasformando l’ammasso informe visto a Christchurch in un gruppo di giocatori dall’orgoglio smisurato e dal gioco nettamente più evoluto. Nonostante tutto il bailamme messo in piedi con la collaborazione di Campbell, mai più visto nelle orbite ovali.
Ecco, fosse stata una questione tra umani dotati di un gran talento ovale, forse, sarebbe stato diverso.
In campo però, quella sera, c’era Dan Carter.
O forse qualcuno travestito da Dan Carter.
Forse, a quel qualcuno, il vestito da Michael Jordan non andava più bene.
Cristian Lovisetto – Anonima Piloni
Gli Highlights del secondo Test tra All Balcks e Lions e l’incredibile prestazione di Dan Carter di cui si parla nell’articolo li trovate a questo link.
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