Il lungo volo di Kaine Robertson

Kaine calcia lungo e in campo, il Galles è sguarnito. Ancora non lo sappiamo, ma stiamo per entrare nella storia

Kaine Robertson - Italia Galles - Sei Nazioni 2007

Kaine Robertson vola in meta durante Italia-Galles del Sei Nazioni 2007 – Ph. S. Pessina

Nella quarta giornata del 6 Nazioni 2007, l’Italia si trova inaspettatamente in difficoltà contro un Galles appannato, ma non arrendevole. Serve un gesto che sollevi il morale del gruppo. L’Anonima Piloni vi parla di Kaine Robertson e di una meta entrata nella storia ovale azzurra.

Oh, sarà anche il Galles più scarso degli ultimi anni, ma ci sta facendo male.
Shane Williams ha già segnato una meta nella loro unica azione pericolosa, sono avanti 7 a 6 e continuano ad attaccare.

James Hook legge una nostra salita sbagliata e buca all’interno. Finta di qua, finta di là, si deve sacrificare capitan Troncon. I gallesi sono di più, sono tre, quattro forse, contro il solo capitano. Sono saliti tutti, annusano il sangue dell’animale ferito. Solo che Tronky ha le mani sulla palla, e quella palla non la molla. Si va tutti a terra, siamo salvi, per ora.

Ma c’è bisogno di una scossa, di un gesto che tenga alto il morale della truppa. È il nostro numero 14 a prendere la palla. Se non fosse per quel fascio di muscoli e nervi chiamato Shane Williams, dall’altra parte, sarebbe il più leggero della compagnia. È questione di istanti: prende la palla e la calcia lunga, alta. Dove non ci sono gallesi.
O meglio, ce n’è uno, Ian Gough, seconda linea di Newport, che avrà pure 40 metri e 40 chili di vantaggio sul nostro, ma che in uno sprint a due arriverebbe terzo. È una volata lanciata e, come dice la parola, è questione di aver confidenza col volo.

Il volo della palla, il volo di Kaine, la cui parabola per un po’ ci ha resi una tribù di rugbisti dai piedi alati.
È un volo che comincia presto, alla fine dello scorso millennio, e ha tra i protagonisti Graham Henry, e allora sappiamo tutti che qui si parla di rugby di un certo livello. Nel 1998 Henry viene consultato dai dirigenti del Viadana, che sono alla ricerca di un paio di giocatori in grado di fare la differenza in serie A2. Viadana, per gli stranieri, in quegli anni ci ha sempre visto giusto: sono passati di qua Tana Umaga e Inoke Afeaki, non propriamente dei carneadi. Henry gliene manda due di un certo livello: uno si chiama Sonny Parker, è un centro maori ventunenne già nazionale under 21 a casa sua. Diventerà nazionale gallese e vincerà due Grandi Slam. L’altro è Matthew Phillips, numero 8 anche lui ex nazionale giovanile in Nuova Zelanda. Kirwan se lo porterà ai Mondiali 2003 e sarà il numero 8 azzurro prima dell’avvento di Sergio Parisse.
Non male, Graham.

Ma non finisce qui: Henry ne manda in Italia altri due, più giovani, perché si facciano un’esperienza all’estero e si facciano le ossa. Uno si chiama Andrew Henry e no, non è un caso: è il figlio diciottenne del coach. Finirà a Cardiff all’inizio del millennio, ma poi lascerà la palla ovale e diventerà un disegnatore di scarpe. L’altro è uno dei migliori amici di Andrew, ha studiato all’Auckland Grammar School ed è un discreto trequarti ala, dotato di buoni tempi sui 100 e sui 400 metri a scuola. Nella staffetta lunga si scambia il testimone con uno dei figli prediletti di Auckland, Doug Howlett, uno che con gli All Blacks e più tardi con la Red Army qualche meta l’ha fatta. Il ragazzino in questione si chiama Paul Kaine Robertson e sembra quello che meno c’azzecca col mondo italiano.

Eh, aspettate.
Henry e Robertson vanno inizialmente nell’under 20, Kaine passa anche al Mantova, ma si rompe la spalla al primo match. Non ancora ventenne, spalla ko a migliaia di chilometri da casa: no, non è facile. Ma riparte da Viadana e passa in prima squadra. Il ragazzino, per gli standard italiani, è tanta roba: sul lanciato non è avvicinabile, ha la corsa rotta giusta per far danni e sa leggere il gioco avversario.

In difesa tiene bene, nonostante il Super 10 sia terra di discreti bisonti. In più è un buonissimo estremo aggiunto, in grado di sostenere e respingere l’eventuale gioco al piede dell’altra squadra. Nel 2002 arriva lo storico scudetto di Viadana e Kaine passa la linea bianca dodici volte. Appena può, Kirwan lo convoca in Nazionale, un’ala del genere era da un po’ che non si vedeva, alle nostre latitudini. Debutta contro la Romania nel 2004, perdiamo una partita che avevamo rimesso in piedi non si sa come, Robertson segna una meta. Non è un gran periodo per la Nazionale azzurra, arriva un Whitewash nel 2005 (Kaine segna d’intercetto contro la Francia), Kirwan se ne va. Arriva Pierre Berbizier, che nonostante un roster a dir poco risicato riesce a strappare buoni risultati. Ci qualifichiamo per la Coppa del Mondo con 5 mete di Robertson, 3 al Portogallo e due alla Russia, poi arriva il 6 Nazioni 2007. Partiamo malissimo contro la Francia di Chabal, ci riprendiamo a Twickenham contro l’Inghilterra, giochiamo una gran partita, segniamo una meta da antologia, ma loro hanno Jonny Wilkinson, e un Jonny Wilkinson è per sempre. Il 24 febbraio, però, scriviamo la storia, in collaborazione con la Scozia: facciamo tre mete d’intercetto nei primi 7 minuti, l’ultima è di Kaine che apre i flap e deposita la palla del 21 a 0. La Scozia avrebbe tutto per tornare in partita, anche perché l’Italia in difesa non è impeccabile: hanno soluzioni, hanno un killer dalla piazzola che risponde al nome di Chris Paterson, giocano davanti ad un Murrayfield inferocito. Ma si fanno prendere dalla foga e finiscono la benzina troppo presto. Prima vittoria esterna di sempre in un 6 Nazioni, prima volta che superiamo i 35 punti in un match. È un trionfo per noi, ed il bello è che si può ripetere. Al Flaminio arriva un Galles in caduta libera: le stelle hanno le polveri bagnate, i gregari non sono all’altezza. Hanno perso i primi incontri e cercano un po’ di sole al Flaminio.
Gli azzurri cominciano bene, vendono la loro metà campo e mettono in ginocchio il Galles con la mischia. Pez infila due calci, andiamo sopra 6 a 0. Solo che al primo errore siamo scoperti e Shane Williams ci fa piangere. Gareth Thomas e compagni capiscono che è il momento giusto per colpire ancora: si buttano su ogni pallone, contestano qualsiasi cosa. Non respiriamo.

Oh, sarà anche il Galles più scarso degli ultimi anni, ma ci sta facendo male. James Hook legge una nostra salita sbagliata e buca all’interno. Finta di qua, finta di là, si deve sacrificare capitan Troncon. I gallesi sono di più, sono 3, quattro forse, contro il solo capitano. Guardali, i muscoli del capitano. Il capitano non tiene mai paura, nemmeno quando si tratta di rallentare quattro gallesi che hanno anche la palla in mano. La palla la rallenta così bene che la strappa di mano a Peel, numero 9 avversario. Il raggruppamento va a terra. I gallesi sono tutti lì. Sono saliti tutti, annusano il sangue dell’animale ferito. Aspettano un nostro errore, noi aspettiamo un gesto, un segno, qualcosa che tiri su il morale della truppa.

Kaine è schierato vicino al raggruppamento. Si accorge per primo che non c’è nessuno in grado di smistare la palla, Troncon è ancora nelle mangrovie gallesi. E si accorge che dietro, i gallesi, non hanno lasciato che una seconda linea di 120 chili.

È il momento.
Robertson si avventa sulla palla e sferra un calcione.
Poi vola.
Come quel giorno da Auckland, insieme a Andrew Henry, che ora disegna scarpe e al rugby non pensa più.
Come quando riceveva il testimone da Doug Howlett.
Come quando si rimise in piedi dopo la spalla rotta a Mantova.

I gallesi non se l’aspettano, il buon Ian Gough sa di essere battuto in volata da uno come Robertson. Arriverebbe terzo, in uno sprint a due. Stringe, prova a tagliare la strada, si tuffa quando si accorge di essere stato ripreso. Ma sa benissimo che il rimbalzo ovale premia quelli che, nonostante tutto, osano di più. È meta in mezzo ai pali, il Flaminio esplode dopo minuti di grandissima tensione.

Kaine viene abbracciato da tutti, lo stadio non smette più di applaudire.
È la scossa che serviva, il guizzo che ci ha riportati davanti, e non solo nel punteggio. È la voglia di mettere il naso davanti dopo una lunga rincorsa.
È il volo che fa sognare e che ci fa sognare.
Dio quanto sembrano lunghi gli anni, quando non si hanno ali per volare.

 

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

 

Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.

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