Pat McCabe, centro di sacrificio

Se aspiri a diventare un trequarti dei Wallabies devi saper correre, avere grandi doti alla mano al piede, essere fisicamente superiore. Oppure chiamarti Pat McCabe

pat mccabe

Pat McCabe alla Rugby World Cu 2011 – ph. Marty Melville / AFP

L’Anonima Piloni vi racconta di Pat McCabe, centro prematuramente ritiratosi per ripetute fratture vertebrali, che per la maglia dei Wallabies ha dato tutto.

“Frattura vertebrale”. Il referto medico è quanto di più crudo e duro ci possa essere. “Frattura vertebrale”. È la terza in una carriera, quella decisiva.

Pat decide che finisce qua, fischio finale. È la cosa giusta da fare, dice, ti sei rotto il collo tre volte e cammini ancora, non puoi sfidare ulteriormente la sorte.

Non è possibile immaginare quanto sia costata una decisione del genere.

È il 26 agosto 2014, Pat veste un collare e la tuta dei Wallabies. È l’ultima tuta dei Wallabies che veste, almeno da giocatore. Poi, accompagnata a delle pantofole, la sua discreta figura la farà, ma non sarà più la stessa cosa. Ventisei anni non sono molti per appendere le scarpe al chiodo, ma qualche soddisfazione Pat McCabe, professione trequarti, se l’è presa nei suoi anni da professionista.

È arrivato terzo ad una Coppa del Mondo under 19, è passato professionista con i Brumbies, è arrivato in Nazionale.

E dire che non è facile emergere in Australia. Soprattutto se sei un trequarti. Soprattutto se la generazione a cui appartieni è bella densa di giocatori dal talento spropositato. Qualche nome? Quade Cooper, James O’Connor, Kurtley Beale, Nick Cummins. Mat Toomua, tanto per rimanere in casa dei cavalli selvatici. Tutta gente che dà del tu al pallone quando e come vuole. Tutta gente che potrebbe mettere a disposizione il fosforo e i garretti di cui dispone in qualsiasi ruolo, là dietro.

Pat non ha la tomaia canterina. È veloce, ma in progressione, senza avere il cambio di velocità di altri (Adam Ashley Cooper, Digby Ioane). Non ha la visione di gioco per essere un playmaker aggiunto. Almeno, non ai livelli dei dirimpettai qui sopra.

Fisicamente è buono, ma non super: guardatevi Kuridrani, o ancora la compattezza di Ashley-Cooper. No, niente di tutto questo: Pat McCabe, se dovessimo ordinare i trequarti australiani per doni ricevuti da Madre Natura forse non verrebbe nemmeno accettata una sua iscrizione a qualche lista. Ma fidatevi, uno così in tanti se lo terrebbero ben stretto. Perché? Semplice: esiste. Sono novantasei chili di muscoli che si piegano, stantuffano e rimandano al mittente qualsiasi offensiva avversaria.

È una macchina da placcaggi, solido da far spavento in difesa. E dedito al sacrificio, perché sono poche le volte in cui la sua maglia non si è colorata del rosso del suo sangue.

Di qua non passa nessuno.

Se ne rendono conto i Brumbies. E se ne rende conto ben presto anche il commissario tecnico, il famigerato Robbie Deans. Che è neozelandese, quindi con gli australiani già di primo acchito va bene, ma non benissimo. Deans non è molto amato dai tifosi, gli imputano l’incapacità di vincere “bene” nonostante l’ultima generazione sia pervasa da una dose sconsiderata di talento. Lo spettacolo è un’altra cosa, dicono. Certo, ma il CT ha una certa idea in mente: chiaro che volendo potrebbe schierare una linea di trequarti composta da fiorettisti, tutti gran piede e polsi da acquerellista, ma poi chi si sporca le mani in difesa? Chi puntella il tutto quando l’avversario attacca la linea?
E allora uno Pat McCabe in Nazionale ci sta eccome.

Debutta contro l’Italia a Firenze nel 2010, solo pochi minuti, il primo cap da titolare arriverà nel 2011 contro Samoa: è una carneficina, Giteau e compagni giocano una partita orrenda, sempre in balia della fisicità isolana. L’unico a salvarsi in quel macello è McCabe, l’unico a placcare in avanzamento i samoani. Si perde, perché è giusto perderla una partita del genere, poi però i Wallabies cambiano passo e vincono il Tri Nations, candidandosi di fatto a giocarsi un posto al sole alla Coppa del Mondo. Pat è il vero eroe contro gli Springboks il 13 agosto, una meta (l’unica dell’incontro) e 11 placcaggi stampati per espugnare Durban. Ne butta giù altri 12 contro gli All Blacks il 27 agosto, poi è Coppa del Mondo.

I Wallabies vincono bene con l’Italia, Russia e Stati Uniti, perdono però contro l’Irlanda di un gigantesco O’Brien e di una mischia monumentale. McCabe si procura una sublussazione alla spalla contro gli americani ed è in forse per i quarti di finale. Poi però ce la fa e va a sfidare ancora gli Springboks. E fa ancora malissimo ai sudafricani: va dritto per dritto, assorbe un avversario, si gira e serve Horwill che schiaccia. I sudafricani assediano i Wallabies nella loro metà campo e le cifre sono eloquenti: più del 70% di possesso palla, mischie su mischie, fasi su fasi. Ma sono inconcludenti, ad un certo punto viene anche il braccino, fanno solo 9 punti.

In difesa è una battaglia senza quartiere, ma gli australiani vanno in semifinale riuscendo per la seconda volta in un mese a battere i sudafricani sul loro campo: sulla sfida corpo a corpo, in quelle che gli inglesi chiamano ugly wins.

Contro gli All Blacks si esce (e chi non esce contro quegli All Blacks?), ma si arriva terzi vincendo col Galles. La meta decisiva è di McCabe, dritto per dritto in mezzo ai pali e medaglia di bronzo al collo. Deans in qualche modo la sua scommessa la vince e da questo momento, se possibile, Pat migliora ancora. Il talento non te lo puoi inventare da un giorno all’altro, né puoi migliorare l’impatto fisico riempiendo di muscoli la carrozzeria a 23 anni, ma qualcosa fa. In attacco lavora sugli angoli di corsa e comincia a passare la palla con più costrutto. In difesa no. Difficile migliorare lì, quando si è una falciatrice perpetua per 365 giorni l’anno.

Ai Brumbies nel frattempo arriva Jake White, uno che un minimo di rugby lo ha visto, e come fa un sudafricano a non innamorarsi di un centro del genere? Non ne vedeva uno così là in mezzo dai tempi di De Wet Barry. Diventa uno dei cardini della franchigia di Sidney, poi anche della Nazionale, dove piano piano diventa un leader by example, sempre a placcare, sempre a fermare l’avversario, con le buone o con la maglia rossa di sangue.

A volte con qualche osso rotto.

Il collo se lo rompe tre volte, una contro i Lions, nel 2013. Gatland scatena la sua Warrenball e i trequarti australiani cadono uno dopo l’altro. Il primo test è emblematico: Leali’ifano dura pochi secondi, Barnes e McCabe poco di più.

Vertebra cervicale rotta, ciao finale di stagione. Torna nel 2014, segna una meta contro la Francia a giugno, poi gioca da ala contro gli All Blacks in due incontri: nel secondo match abbandona il campo all’ora di gioco. Il referto medico è quanto di più crudo e duro ci possa essere “Frattura vertebrale”. È la terza in una carriera, quella decisiva.

Pat decide che finisce qua, fischio finale. 26 anni sono pochi per appendere le scarpe al chiodo, pochi per mettersi addosso un paio di pantofole, pochi per farsi al massimo un po’ di jogging per tenersi in forma.

Questa storia, sapete, sembra dire che forse non ne vale la pena, forse dare tutto per quel che si ama fa bruciare la nostra candela il doppio delle altre, consumandoci nella metà del tempo. No, non pensatela così, se potete. Perché a fare i padri di famiglia, a fare quelli che si limitano a prescindere magari salvate la pelle e le ossa, ma vi accontenterete, nella vostra esistenza e nella vostra carriera, di un brodino.

Buono quanto volete, ma scarno.

Perché a dare tutto si arriva in Nazionale e ce la si gioca con gente dal talento cristallino. Si fanno innamorare coach che qualcosa in carriera l’hanno vinto. Si dà una speranza a chi Madre Natura l’ha calcolato fino ad un certo punto. Si dà una speranza a chi gli attributi ce li mette sempre, in qualsiasi ambito.

Perché ogni tanto il talento si abbina bene (molto bene) ad un bel paio di attributi.

Pat McCabe ne aveva, e ne ha, un paio di belli grossi. Ovali.

E li ha vestiti di tutto il coraggio che ha saputo sfoggiare.

Se passate a trovarlo parlategli di rugby.

E magari fateci sapere se gli sarebbe piaciuto un brodino, quella volta.

Occhio, dicono sia ancora in grado di placcare.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

 

Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.

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