Quando gli americani si mettono in testa di organizzare un evento, fidatevi che ci sarà da divertirsi. Anche quando si tratta di rugby, sport non esattamente a stelle e strisce
L’Anonima Piloni vi porta a Chicago, dove una delle migliori nazionali irlandesi di sempre compie l’impresa contro gli All Blacks imbattuti da diciotto partite.
Eh, quando si mettono ad organizzare qualcosa gli americani si fanno sempre riconoscere. No, non in senso negativo, badate bene. Ogni volta, però, quando dicono di fare le cose in grande fanno le cose in grande. Mondiali di calcio? Viene fuori USA ’94. Voglia di football? Guardate cosa non è la notte del Super Bowl. Voglia di portare il grande rugby nel continente? Aprono le porte del Soldier Field.
Piano.
Il rugby in America sta crescendo, ma solo da pochi anni è partita la vera e propria caccia alla palla ovale che vola all’indietro. Imprenditori su imprenditori cominciano ad investirci fior di dollari, viene creato il primo campionato professionistico. Sì, ok, tutto molto bello. Ma l’americano medio lo devi comprare col campione, col fenomeno. Date un Roberto Baggio a Pasadena e viene fuori un tifo magari non competentissimo, ma appassionato quanto volete. E allora nel 2014 a sfidare le Aquile, la nazionale a stelle e strisce, arrivano gli All Blacks. È praticamente una mattanza, 74 a 6, ad un certo punto sembra la sfida di rugby presente in uno sketch dei Monty Python. Il Soldier Field registra il tutto esaurito, ma tra gli addetti ai lavori non è che si smuova tutto questo polverone. Ci vuole tempo, ci vuole pazienza.
La Federazione Americana non si arrende, ottiene i Wallabies per un test pre-mondiale. Gli americani, dal punto di vista fisico, non hanno nulla da invidiare agli australiani, ma quando si tratta di metterla sulle fasi statiche è un pianto. Il primo tempo finisce 14 a 10 per gli ospiti, che nella ripresa segnano altre 5 mete e buonanotte Chicago. Dura smuovere una realtà sportiva che ha già tanti sport di squadra, tutti in grado di offrire spettacolo e divertimento per una serata. E allora, se non riesci a smuovere gli americani solo con drop, mete e mischie, devi inventarti qualcos’altro. Per esempio devi ricordarti che qui le radici sono tanto, se non tutto. Si vede che qualcuno deve aver guardato un minimo il bacino demografico dell’Illinois, perché qualcuno se ne esce con una discreta proposta:
“Ma se portassimo qua gli irlandesi?”.
Gli irlandesi, ma certo.
Nell’Illinois il 12% della popolazione si dichiara orgogliosamente originaria della terra del Trifoglio, vuoi che non ce ne sia uno a cui piaccia il rugby? L’affare va a buon fine, a novembre l’Irlanda sfiderà gli All Blacks al Soldier Field, le radici contro gli indiscussi padroni della scena mondiale. Il giorno prima scendono in campo i padroni di casa contro i Māori, finisce tanti a pochi, ma tutti sono pronti per il giorno dopo.
Tutti? Non proprio.
L’Irlanda di Joe Schmidt arriva a Chicago con una delle migliori squadre possibili. Ci sono tutti: dalla mediana delle meraviglie Murray-Sexton, a Jamie Heaslip, al gigantesco Toner, all’Uomo Ragno Rob Kearney. C’è il sudafricano Christiaan Johan Stander, per tutti CJ. Ai Bulls nessuno seppe trovare posto all’ex capitano delle nazionali giovanili sudafricane, ma qualcuno l’aveva già adocchiato in Europa. L’allenatore degli avanti di Munster, Anthony Foley, si innamora follemente di quell’incredibile numero 8. Si rivede in lui, ex gladiatore della Red Army e dell’Irlanda, se lo porterebbe a Limerick in spalla. Lo accontentano. Ne viene fuori una autentica macchina da guerra, vincerà il titolo di miglior giocatore d’Irlanda pur non essendo propriamente originario del Connemara. Arriva però a Chicago con un peso sproporzionato intorno al cuore. Quel cuore rimasto a Limerick, vicino alla salma di Anthony Foley, trovato senza vita la mattina del 16 ottobre. Sono in tanti gli uomini di Munster rimasti orfani del loro allenatore, sono in tanti coloro che vorrebbero rendergli onore in campo contro gli All Blacks.
Già, gli All Blacks.
A Chicago gli uomini di Steve Hansen arrivano per conquistare la diciottesima vittoria consecutiva, hanno appena tolto il record di tutti i tempi agli Springboks di Nick Mallett. Due coppe del Mondo consecutive e una squadra sulla carta ancora più forte di quella dei due semidei Dan Carter e Richie McCaw. E chi li batte questi? Hansen ha perfino l’imbarazzo della scelta: molti dei ragazzi lasciati il giorno prima ai Māori sconfiggeranno nettamente l’Italia di Conor O’Shea di lì a una settimana. Contro gli irlandesi qualche cambio lo fa, ma in campo ci sono Beauden Barrett, Ben Smith, che al vederlo non gli dai due soldi ma è uno dei leader silenziosi e più rispettati, Ryan Crotty, che ha giustiziato gli irlandesi nel 2013. Jerome Kaino, Sam Cane, Julian Savea. Ragazzini indemoniati come Moala e Naholo.
Di nuovo: e chi li batte questi?
Anche perché annusano il pericolo, si trovano davanti i campioni del Sei Nazioni 2015, ancora piuttosto arrabbiati per come è terminato l’ultimo torneo europeo. E allora rompono il ghiaccio con la Kapa O Pango, dirige le operazioni TJ Perenara. Gli irlandesi non si scompongono più di tanto e si dispongono sul prato del Soldier Field. Formano un 8, vogliono ricordare Foley. O, se volete, l’infinita voglia di togliere il sonno a quelli vestiti di nero. E vogliono cercare quello che assomiglia ad un miracolo. Chicago ha appena vissuto la lunga notte dei Chicago Cubs, campioni della World Series dopo 108 anni, il campo ha la carica magnetica giusta. La sfrutta Sexton con un calcio dopo pochi minuti, gli irlandesi fanno il loro gioco. Montano con il loro multifase sfiancante, ripetitivo finché volete, ma che ti toglie fiato e lucidità. Gli All Blacks soffrono, ma alla prima sbavatura difensiva dei verdi Naholo fa strada. Lo placcano in pieni 22, ma riesce a liberarsi della palla che, essendo ovale, prende in giro un po’ tutti e finisce in area di meta. Il più bravo a tuffarsi è Moala, Barrett non trasforma. Gli irlandesi non demordono, continuano a cercare sbocchi a destra e a manca. I neozelandesi sembrano tenere, ma a Moody improvvisamente si chiude la vena. Gli esce un placcaggio a ribaltare Henshaw che è tanto violento quanto inutile. Il cartellino giallo è inevitabile. Sexton trova una touche invidiabile, gli irlandesi portano giù la palla e vanno in meta con la rolling maul.
E si accorgono che Steve Hansen, strano ma vero, un paio di cose non le ha preparate proprio bene bene.
Già, perché l’Irlanda in touche è, insieme agli Springboks, la squadra più vicina agli All Blacks. Sì, se in campo però i neozelandesi mandano Brodie Retallick e Sam Whitelock. Altrimenti si fa nera, anche ad Auckland e dintorni. Chicago non fa eccezioni. Certo, Kaino in mischia è un trattore e nei breakdown fa un lavoro oscuro quantitativamente spaventoso, ma dalle rimesse non arriva un pallone pulito che sia uno. Non è l’unico errore commesso dallo staff: contro gli irlandesi, maestri del gioco al piede e di quello aereo, non puoi permetterti di tener fuori così alla leggera Israel Dagg, mostruoso in assenza di terreno sotto le suole. Savea e Naholo, che al largo sono due armi non convenzionali, patiscono profondamente le tomaie di Sexton e Murray.
Morale della favola, per almeno 40 minuti gli All Blacks non sanno più come e dove girarsi, perché arrivano irlandesi da tutte le parti. A questo aggiungete una mediana irlandese che mette su un ritmo che i neozelandesi, pur con spartiti su spartiti in mano, non riescono proprio a tenere. È Kearney a trovare un varco nei 22 neozelandesi, riescono a fermarlo in extremis. Solo che i verdi puliscono alla perfezione e Stander va oltre a testate. 15 a 5, Chicago non ci crede. Credeva ai Cubs qualche giorno prima, non crede che nel loro rettangolo verde gli All Blacks possano aver trovato improvvisamente la kriptonite. Barrett e Sexton si scambiano tre punti al piede, poi giù il cappello davanti a Conor Murray, che dal primo secondo di partita dietro la mischia è praticamente Ennio Morricone: guarda a destra, guarda a sinistra, poi brucia le guardie e schiaccia dietro ai pali per il 25 a 8. Mai gli All Blacks erano andati sotto di così tanti punti dopo 40 minuti.
Ma proprio mai.
Dicono che Hansen, negli spogliatoi, si sia fatto sentire per bene. Non ha molte espressioni nella sua faretra personale, ma si è accorto che ad andare avanti così si rischia il tracollo. Opera dei cambi, disegna sulla lavagna. Solo che dopo dieci minuti della ripresa gli unici ad aver segnato punti siano ancora gli irlandesi, con Zebo che schiaccia al largo su bell’attacco di Sexton. 30 a 8, non può continuare così. No, perché gli All Blacks non possono andare incontro ad una disfatta così clamorosa, e no perché gli irlandesi non possono tenere questo ritmo per altri 30 minuti. Non sarebbe umano. E infatti più di qualcuno vorrebbe tanto tenersi le mani sui fianchi e respirare a bocca aperta. Le seconde linee hanno fatto il bello e il cattivo tempo, le terze sentivano l’odore del sangue, Murray e Sexton indescrivibili per scelte e per coraggio di portarle a compimento. Hansen mette dentro Scott Barrett in seconda e tappa alla grande l’enorme falla del primo tempo, tagliando allo stesso tempo un importante rifornimento verde. E toglie Aaron Smith, completamente surclassato da Murray nel primo tempo e visibilmente fuori forma. Al suo posto entrano gli occhi spiritati di TJ Perenara, che poco dopo raccoglie un maestoso offload interno e schiaccia sotto i pali.
I neozelandesi si scuotono, il Soldier Field richiama birra alla gola, non è finita. Anche perché il primo pallone che Sexton non spara dove vorrebbe chiama l’assalto nero. La palla arriva a Ben Smith, tartassato lì dietro dal gioco aereo dei verdi. Smith prende, va all’esterno e schiaccia in bandierina. 30 a 22, mancano 20 minuti e abbiamo ancora un match. Nell’Irlanda si è accesa la riserva nel momento peggiore. Anche perché Sexton ha crampi ovunque e deve uscire. Entra il ventenne imberbe Carbery, pure lui di Leinster, ma la responsabilità del primo calcio di punizione post Sexton se la prende Murray, che centra i pali. No, non finisce qui. Gli All Blacks sono furenti, si ributtano nei 22 irlandesi e fanno la partita. Liam Squire, che in terza linea finora ne ha prese da qui a domani, serve un pallone d’oro a Scott Barrett, arrivato con un angolo irreale. Stander riesce a prenderlo a un metro dalla linea, ma Barrett ha i tentacoli e riesce a schiacciare. 33 a 29, mancano 16 minuti. Non so se ci siamo capiti: questi hanno ripreso per i capelli una partita che chiunque avrebbe dato per persa già da un bel po’, nonostante una formazione iniziale perfettibile e 50 minuti a prendere sberle su sberle.
Sugli spalti, invece, non si sa per chi tifare.
Eh, la cultura sportiva americana in questi frangenti rischia di essere pericolosa.
Da una parte gli underdogs, gli sfavoriti, che però stanno facendo il miracolo sportivo dei miracoli sportivi. Oh, per cinquanta minuti sugli spalti si sono dimenticati dei Cubs! Dall’altra parte i campioni che, in difficoltà, hanno ripreso in mano la partita e si accingono a chiuderla. Fa danni, certa cultura sportiva americana. Due dei più grandi filoni visti in qualsiasi film americano sul tema, uno di fronte all’altro. C’è da perderci la testa. Una cosa sembra certa: nessuno o quasi sembra credere sul serio all’orgoglio che quelli in verde sanno mettere in gioco in questi momenti. Davanti agli All Blacks sono dati per spacciati. Sono i decorati della squadra a prendere per mano tutti, da Heaslip a Murray, da O’Brien a Best. Tutti gli altri seguono ed eseguono. Con le forze al lumicino, ma eseguono. Difendono come ossessi e ripartono al piede, specialità della casa. Fino a quando, sulla metà campo, Carbery sfrutta un paio di decoy runners e lancia i trequarti. Poi un calcione nelle zone limacciose dell’area dei 22 nera. Gli All Blacks non se l’aspettano, quel pallone lo recuperano, ma vengono portati fuori dalla linea di pallone morto, è mischia irlandese ai 5 metri.
Lo stadio ruggisce, le mischie tengono, esce Heaslip. Lo prendono, ma ha già riciclato la palla per Henshaw, che arriva lanciato all’interno. 100 e passa chili con quella velocità li puoi fermare solo con un fucile caricato a sale. O con una trappola per orsi. Niente che sia legale su un rettangolo verde, per farla breve. Meta, fanno 40 punti con la trasformazione a 4 dal termine. Gli uomini di Hansen, per la prima volta, sembrano sedersi. Due mete da fare in 4 minuti, contro quelle belve ferite e distrutte eppure ancora in grado di lottare sono troppe anche per loro. Sono di un altro pianeta, ma una parte umana ce l’hanno pure loro, a quanto pare. La nasconderanno molto bene qualche settimana dopo, quando affronteranno di nuovo l’Irlanda e la batteranno, con tutti gli effettivi ma non senza difficoltà, a Dublino. Sarà una partita bellissima ed emozionante, ma non sarà la stessa atmosfera, lo stesso clima, la stessa storia sportiva. Lo stesso doppio miracolo sportivo dopo i Chicago Cubs.
Eh, perché quando si mettono ad organizzare qualcosa gli americani si fanno sempre riconoscere. Ogni volta che dicono di fare le cose in grande, puntualmente, fanno le cose in grande. Mondiali di calcio? Viene fuori USA ’94. Voglia di football? Guardate cosa non è la notte del Super Bowl. Voglia di portare il grande rugby nel continente? Si vedono l’Irlanda battere gli All Blacks dopo 115 anni di sconfitte e illusioni. A passare indietro una palla ovale non saranno ancora il massimo della vita, ma da quelle parti la Storia Sportiva, quella con la S maiuscola, te la fanno scrivere meglio. Si tratti di diamanti, di mazze e palline, si tratti di uno strano ovale che per una sera non deve subire le cure di un muscoloso e avvenente quarterback.
Basta che aprano le porte del Soldier Field. Pare che lì, ogni tanto, accadano miracoli.
Cristian Lovisetto – Anonima Piloni
Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.
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