Andrew Mehrtens, oltre le Colonne d’Ercole

Potrà sembrare strano, ma anche gli All Blacks hanno avuto la coperta corta nella loro storia: non durerà molto

Andrew Mehrtens

  • Andrew Mehrtens ph. Eric Gaillard/Action Images

Potrà sembrare strano, ma anche gli All Blacks in tempi non troppo distanti hanno avuto problemi di coperta corta. L’Anonima Piloni vi racconta di come a risolvere la situazione sarà un biondino a prima vista timido ed intimidito, ma che sposterà i limiti dell’attacco dove nessun mediano era ancora arrivato.

A luglio in Nuova Zelanda, di solito, non fa così caldo.
Verso la fine di luglio del 1993 però, con i brividi di freddo si tende ad esagerare.
E non è questione di maglioni troppo leggeri.
Qualcuno cominciò a capire che non sarebbe stato un bel periodo quando Laurie Mains, commissario tecnico degli All Blacks, chiese esplicitamente a Marc Ellis di prepararsi a giocare da numero 10 nel tour autunnale in Scozia e Inghilterra.

Ellis è un fenomeno all’ala e pure con la 13 sulle spalle, ha scatto bruciante e una invidiabile capacità di andare all’avventura. È veramente un signor giocatore, ma non è un mediano d’apertura. Non ha un gioco al piede, per esempio. E, al di là di un paio di giocate codificate, non può essere un regista in grado di traghettare i tuttineri senza essere letto dalle difese avversarie più organizzate. Certo, contro la Scozia si vince bene (e segna due mete) e contro l’Inghilterra la sconfitta non dipende solamente da lui (Jeff Wilson sbaglia cinque calci su otto), ma far giocare lì quel tipo di giocatore significa snaturare un talento cristallino fuori dalla sua acqua d’elezione.

E, soprattutto, c’è il sentore che qualcosa non stia andando per il verso giusto.
Qualcosa, forse, il 31 luglio del 1993 si è rotto.
Perché il ritiro di Grant Fox, genio della regia ovale mondiale, ha sconquassato gli equilibri della realtà rugbistica più riconoscibile del mondo. Fox, bandiera di Auckland, ha deciso di appendere gli scarpini al chiodo. E la federazione si è resa conto che non ci sono sostituti già pronti all’uso.
Non subito, almeno.

E allora si punta su Ellis, star di Otago, ma non può essere lui la Soluzione con la S maiuscola.
Né può esserla Stephen Bachop, compagno di squadra di Ellis, non convocabile dagli All Blacks perché già cappato da Samoa nel 1991 e perciò non disponibile fino al 1994 (ah, gli anni delle naturalizzazioni allegre!).
Oh, non sono per nulla una brutta squadra, i tuttineri: Sean Fitzpatrick ha un carisma incredibile, in terza linea gravitano Mike Brewer e l’attuale commissario tecnico del Giappone, Jamie Joseph. Due ali come Ellis e Wilson e due centri come Little e Bunce sono spaventosi per qualità e quantità di talento, e non gioca ma ha da poco debuttato un certo Jonah Lomu. Ma sembra che senza un regista baciato dagli dei ovali gli All Blacks non si concedano.
La soluzione ce l’avrebbero in casa, ma preferiscono aspettare.

Pure Grant Fox, uno che ha rivoluzionato il modo di calciare un ovale da una parte all’altra del campo, tende a sbilanciarsi: “Eh, quello lì ci risolverà tanti problemi”.
Nel frattempo per tutto il 1994 fanno giocare Stephen Bachop, tornato disponibile. Giocatore discreto, ma rivedibile dalla piazzola e non troppo incisivo col pallone in mano. Se a questo aggiungiamo che a rifornirlo di palloni è il fratello Graeme, da molti considerato dotato ma troppo timido per essere un mediano a quei livelli, capirete che gli All Blacks datati 1994 sono la versione sbiadita di una formazione gloriosa. E i risultati non si fanno attendere: due sconfitte su due con la Francia, due vittorie risicate e una sconfitta contro gli Springboks, a loro volta un cantiere aperto in vista del Mondiale casalingo.

No, non è un gran vivere ovale, da quelle parti. Forse lo sarebbe altrove, ma non lì.
Però, assicurano, per la Coppa del Mondo sarà tutto un altro paio di maniche.
Il 1995 ovale degli All Blacks comincia il 22 aprile ad Auckland. Il primo avversario da battere per cominciare al meglio l’avvicinamento alla Coppa del Mondo è il Canada. Che non è il Canada macilento e mediocre di questi anni. I Canucks nel 1991 hanno raggiunto i quarti di finale in Inghilterra e hanno appena battuto le Fiji a casa loro. Hanno due o tre ottimi giocatori come Al Charron, David Lougheed e soprattutto Gareth Rees, che sarà il primo giocatore canadese ad entrare nella Hall of Fame ovale e l’unico giocatore a giocare le prime quattro coppe del mondo. Non è un avversario da sottovalutare, insomma. Laurie Mains decide di sfruttare il primo match ufficiale dell’anno per provare qualche nuovo innesto. Ad estremo, per esempio, inserisce Glen Osborne, numero 15 di North Harbour.

È un giocatore veloce, potente, che sa correre negli spazi. La sua avventura con gli All Blacks si interromperà quando là dietro, nel triangolo allargato, troverà la strada sbarrata da gente come Chris Cullen e Jeff Wilson. Andrà meglio a Josh Kronfeld, debuttante in terza linea, giocatore rapido e sgusciante, ma pure letale nel placcaggio e nel lavorare nei raggruppamenti.

La terza nuova carta di coach Mains è il nipote di George, un cap con gli All Blacks nel 1928 e una lunga carriera da estremo a Canterbury. E il figlio di Terry, ex apertura della nazionale under 21 e a sua volta per anni a Canterbury. E pure lui ha guidato le Nazionali giovanili, fino all’anno prima. ha fatto un po’ di gavetta a Canterbury e pure a Calvisano, nelle serie minori italiane, nel 1992. Se lo ricordano bene quel ragazzino solo all’apparenza timido e intimidito, nella provincia bresciana. D’altronde è difficile dimenticarsi di un giocatore del genere. D’altronde, con un pedigree del genere, è difficile trovarsi davanti ad un giocatore “normale”.
E infatti, quell’esile biondino di 22 anni con la maglia numero 10 sulle spalle, non sarà mai un giocatore come tutti gli altri.

Perché Andrew Mehrtens, apertura di Canterbury, lascerà un discreto segno nel rugby. E ci mette due minuti per far capire perché Grant Fox da tempo parla di lui come del suo primo erede degno di tale nomea. Il piede, innanzitutto: alterna lunghe pedate a calci tattici morbidi e pregevoli, leggendo sempre in anticipo i movimenti del triangolo allargato avversario. Alla mano è freddo e senza paura, essenziale nel gesto pur senza disdegnare, quando necessario, il colpo di teatro. È il primo vero degno erede di Grant Fox a numero 10, ma se possibile Mehrtens è la versione riveduta e ampliata del manuale del mediano di apertura che era l’uomo di Auckland. Perché se Fox era avanti di almeno vent’anni nell’utilizzo del gioco al piede, Mehrtens porta la maglia numero 10 a giocare ad altezze ancora inesplorate. Ne è un esempio la prima meta dell’incontro, quella di Little: Bachop rifornisce, Mehrtens si porta a ridosso della linea di difesa e innesca il suo numero 12 con i placcatori canadesi ad un tiro di fiato. Little trova il buco giusto ed è placcabile solo con mezzi nè convenzionali, né legali.

Mai un mediano di apertura, fino a quel momento, aveva provato a giocare così, con quella competenza e quella sfrontatezza, a quei livelli.
E non è solo questo. Mike Brewer, numero 8 di quella Nazionale e di Canterbury e che passerà per L’Aquila in veste di allenatore, restò impressionato quando se lo trovò a giocare da titolare. Quel che lo fece sobbalzare non fu tanto l’uso del piede, né lo spropositato numero di endecasillabi che gli uscivano dalle mani, quanto la sua capacità di essere due o tre mosse più avanti di qualunque altro sulla scacchiera. “Contro Auckland partii da un raggruppamento e pensai che di lì a poco sarebbe stato il caso di provare il drop. Mi girai e vidi Mehrts già a zero. Non avevo detto né lasciato trasparire nulla”.
E Laurie Mains si sfrega le mani.

Il Canada, dopo una breve e fiera resistenza, si sfarina. Non ha la forza fisica né la qualità per reggere una macchina che ha sistemato il suo problema principale, nonostante gente come Rees e Rod Snow, con l’esempio, provi a scuotere i compagni. Il massimo che ottengono è qualche maglietta strappata, due numeri 21 in campo contemporaneamente, qualche rimbalzo antipatico. La meta di Olo Brown nella ripresa è emblematica: il pilone parte a dieci metri dalla linea e schiaccia con un paio di uomini avvinghiati e inermi. Sono corse nere in praterie spoglie di foglie d’acero, placcaggi sempre più indeboliti, azioni sempre più garibaldine, quasi a provare i meccanismi in vista della Coppa del Mondo. Coppa del Mondo in cui il Canada non sfigura particolarmente, se si esclude la vergognosa rissa contro gli Springboks. E Coppa del Mondo in cui gli All Blacks si sciolgono sul più bello davanti alla Storia, non si sa ancora quanto per merito dei padroni di casa e quanto per demerito dei neozelandesi.

Sta di fatto che quel 22 aprile del 1995 il mondo ovale vide nascere una stella rilucente, i cui lasciti sono visibili tuttora nei nostri cieli di sportivi o presunti tali. Una stella con un palmarés non degno di così tanto talento, ma capace di condizionare il manuale tattico del rugby anche a cinque lustri di distanza e di tener ben dietro di sé nelle scelte dei suoi selezionatori talenti cristallini come Carlos Spencer e Tony Brown.
A superarlo, ma nemmeno del tutto, sarà il ragazzino rimasto per un bel po’ alle sue spalle. Sia in campo, ossia con la maglia numero 12, sia nei taccuini dei suoi allenatori, ossia in panchina. Uno che lo copiava e lo seguiva in allenamento, dopo aver costretto suo padre a montare un paio di pali in giardino. Almeno fino a quando il fisico, la carta d’identità e un certo Graham Henry non diranno che quel ragazzino, quel Dan Carter potrà dire qualcosa, nel mondo del rugby che conta.

Ma questa è pur sempre un’altra storia.
O forse no.
Perché Andrew Mehrtens, apertura di Canterbury, dei Crusaders, degli All Blacks e di numerose squadre europee che se lo sono goduto nell’autunno della sua carriera, continua a lasciare un discreto segno nel rugby.
Laurie Mains, nel dubbio, continua a sfregarsi le mani.
Non è più il commissario tecnico da un bel po’, ma ogni tanto ripensa a quei tempi e lo fa.
A luglio, quando non fa così caldo.
Ma pure negli altri mesi dell’anno.
E non è questione di maglioni troppo leggeri.
Non ha tutti i torti, a pensarci bene.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

 

Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.

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