I fattori che determinano forza e ampiezza di un movimento, sono tanti e complessi. Abbiamo provato ad analizzarli
I fattori che determinano la “forza” (e i successi) di una nazionale, o per meglio dire di un movimento, in una disciplina sportiva sono davvero tanti, complessi e spesso interconnessi tra loro. Il rugby non fa certo eccezione.
Abbiamo provato a fare un’analisi e una riflessione – che premettiamo subito non ha la pretesa di essere definitiva – per inquadrare il rugby italiano nel contesto del panorama mondiale della palla ovale.
Storia e tradizione
Ragioni storiche e di tradizione innanzitutto: a metà dell’ottocento i britannici, inventori del gioco, oltre a praticarlo nel Regno Unito iniziarono a diffonderlo nelle loro colonie e, non a caso, ancora oggi le grandi potenze del rugby, oltre alle Home Unions, si chiamano Sudafrica, Nuova Zelanda e Australia.
Discorso simile per l’Argentina, dove la palla ovale venne esportata intorno al 1850 da emigrati irlandesi (e dove i British & Irish Lions fecero un tour, anche se non ufficiale, già nel lontano nel 1927) così come in Francia dove, intorno al 1872, un gruppo di inglesi residenti in Normandia diede vita al primo club.
Nel nostro Paese, invece, gli albori del rugby risalgono al 1910 quando tra Torino e Milano – grazie a Stefano Bellandi che aveva vissuto qualche tempo in Francia – vennero organizzate le prime partite. Nello stesso anno fuori dai nostri confini andò in scena la prima edizione di quello che fino al 1931 (quando la Francia venne esclusa, per essere poi riammessa nel 1940) si chiamò Five Nations. E gli All Blacks, già nel 1905, avevano intrapreso il loro primo tour nel Vecchio Continente con la mitica formazione degli Originals.
In Italia l’uscita dalla fase pionieristica del rugby si ebbe a partire dagli anni 50 con le prime partecipazioni del dopoguerra alla Coppa delle Nazioni (FIRA) e con il primo tour ufficiale – di una rappresentativa azzurra organizzato – in Madagascar – addirittura solo nel 1970. Ovvero cinque anni dopo quello che gli argentini disputarono in Sudafrica vincendo 11 partite su 15, guadagnandosi il soprannome di Pumas (affibbiatogli da giornalista locale) e venendo accolti da un’enorme folla al loro rientro a Buenos Aires.
Il fatto che il rugby in Italia abbia preso piede così tardi non significa solo aver pagato dazio (in termini tecnici, di strutture, praticanti e appassionati) nei confronti dei movimenti rugbistici stranieri, ma anche delle altre discipline sportive – calcio e ciclismo, giusto per fare due esempi – che nel frattempo si erano ampiamente diffuse (oltre che aver prodotto le prime vittorie e conquistato spazio mediatico) nella nostra penisola.
Lo sport nella società e nella scuola
Un altro fattore determinate è l’importanza sociale attribuita alla pratica sportiva e l’applicazione che ne viene fatta a livello scolastico. Qui si entra in un discorso molto complesso e articolato, che non può non tenere conto anche del numero e della qualità delle strutture sportive (pubbliche, e private, scolastiche e non) che un paese possiede.
Nei paesi anglosassoni, così come in Giappone, lo sport riveste da sempre un ruolo primario e nelle scuole vige la cultura della pratica sportiva, anzi multi-sportiva. L’educazione fisica non è una materia minore, viene considerata al pari delle altre discipline.
Gli Sport Day (una sorta di olimpiadi scolastiche) sono una delle giornate più importanti di fine anno scolastico in Inghilterra, nel paese del Sol Levante per gli alunni esistono i cosiddetti Club, ai quali gli studenti partecipano dopo le lezioni, potendo scegliere tra numerose pratiche sportive.
Per farvi un’idea di quanto sia inappropriato l’accostamento che talvolta si fa tra la nostra realtà rugbistica e quella giapponese vi basti leggere il nostro articolo di qualche tempo fa che racconta numeri e dinamiche della palla ovale nella realtà scolastica nipponica.
Nel Regno Unito, in Nuova Zelanda, come in Giappone le scuole hanno inoltre palestre attrezzate, piste di atletica e spazi verdi quando non addirittura dei campi da rugby (in Nuova Zelanda dove le l’urbanizzazione lo permette in quasi tutti i college è possibile vedere i pali ad H).
I vantaggi evidenti sono due: ragazzi e famiglie conoscono l’importanza della pratica sportiva e i giovani, se anche non sviluppano competenze specifiche nello sport che poi andranno a praticare al di fuori del percorso scolastico, imparano coordinazione e motricità, elementi fondamentali per la pratica di qualsiasi disciplina.
In Italia numerosi educatori sportivi lamentano il fatto che un’alta percentuale di bambini che si avvicinano a uno sport non sono nemmeno in grado di correre in modo corretto o di fare una capriola.
I numeri
Altri elementi che caratterizzano la forza e ampiezza di un movimento sono i numeri, che a parte quando sanciscono il risultato di una partita, non sono tutto e soprattutto non sempre raccontano tutto. Ma qualcosa di molto significativo però sicuramente lo evidenziano.
Tesserati e praticanti
Secondo l’ultimo report di World Rugby (datato 2019) in Italia ci sono circa 77mila tesserati, a fronte di 96mila praticanti totali. La Scozia ha meno tesserati (46mila) ma per contro può far leva su 182mila praticanti; l’Irlanda invece ha 94mila affiliati alla federazione con i praticanti che sono ben 209mila, mentre in Galles i due valori si equivalgono (107mila).
Questi primi dati ci dicono già diverse cose: la prima è che il numero di tesserati di un Paese da 60 milioni di abitanti è pressoché simile a quello di nazioni con una popolazione ben più ridotta, ma anche con una superficie nettamente minore che significa che in quei paesi la densità di praticanti è molto superiore. Cosa che è chiaramente un vantaggio, per club e federazione dal punto di vista “logistico e gestionale” ma che soprattutto testimonia che nei paesi britannici il rugby ha una popolarità e un amalgama nella cultura popolare di gran lunga superiore e il numero di tesserati e praticanti è semplicemente la punta di un iceberg molto più grosso, mentre in Italia fondamentalmente questo numero rappresenta l’intero blocco, perché sotto c’è molto poco.
Anche in Giappone (che ha una popolazione doppia alla nostra), prima della Rugby World Cup del 2019 i tesserati erano 108mila ma con i praticanti che si attestavano a oltre 295mila grazie anche alle oltre 10.000 scuole che proponevano tra le attività (dei già citati Club) il rugby. Lo stesso vale per l’Argentina, che a fronte di una popolazione di circa 45milioni di persone, può contare su 121mila tesserati e 161mila praticanti.
Budget
Passiamo all’aspetto economico. Il rugby (a differenza del calcio) in quasi tutto il mondo è uno sport “centralizzato” ovvero sovvenzionato e guidato per la stragrande maggioranza dalle federazioni che sostengono non solo l’élite professionistica ma anche tutto il movimento di base.
Unici casi a parte, dove esistono anche delle leghe di club ricche e indipendenti, sono Inghilterra, Francia e Giappone (quest’ultimo per ragioni particolari ben descritte qui) in cui Premiership, LNR e Top League generano un grande business che ha importanti impatti sull’intero movimento.
Abbiamo raccolto gli ultimi dati di bilancio disponibili delle principali federazioni affiliate a World Rugby e la classifica che risulta è la seguente:
Inghilterra: 251.7 milioni di euro
Galles: 111.1 milioni di euro
Nuova Zelanda: milioni di euro
Francia: 104 milioni di euro
Irlanda: 85,6 milioni di euro
Sudafrica: 76,2 milioni di euro
Scotland: 69,9 milioni di euro
Australia: 68,2 milioni di euro
Giappone: 59,7 M€ milioni di euro
Italia: 44.4 milioni di euro
Russia 31.5 milioni di euro
Stati Uniti: 28.4 milioni di euro
Argentina: 26.7 milioni di euro
Canada: 10.8 milioni di euro
Georgia: 10,3 milioni di euro
La FIR, con un bilancio annuo di 44,4 milioni di euro, è la decima federazione in assoluto e, per distacco, con un budget pari a due terzi scarsi di quello della federazione scozzese, la meno ricca del Sei Nazioni.
Un altro aspetto da considerare è che le casse FIR possono contare su queste cifre da 21 anni, che iniziano a essere senz’altro parecchi ma molti meno rispetto a quelli di cui ne beneficiano le altre cinque nazioni con cui ci confrontiamo. Nel 1925 al Murrayfield Stadium (già allora di proprietà della SRU) la Scozia superò l’Inghilterra vincendo il suo primo Cinque Nazioni davanti a una folla di 70mila spettatori, paganti si intende.
L’unica nazione che ci sovrasta rugbisticamente pur avendo disponibilità economiche inferiori è l’Argentina. Va però anche considerato che in sudamerica il costo della vita è decisamente molto più basso rispetto al Vecchio Continente e che, da sempre, la maggior parte dei talenti argentini cerca contratti all’estero non impattando direttamente o indirettamente sulla casse federali. Un vantaggio per il rugby di base uno svantaggio per la nazionale a cui non si è però riusciti a porre un rimedio con il progetto Jaguares rivelatosi ben presto insostenibile per la UAR soprattutto per ragioni economiche (visto anche che molti giocatori chiedevano alla Federazione stipendi in dollari) .
Popolarità
I dati dell’audience televisiva del Sei Nazioni che si registrano negli altri paesi – grazie ai quali i diritti tv vengono venduti a cifre enormi di cui la FIR riceve una quota parte che rappresenta una bella fetta del bilancio (e che sono una delle principali ragioni per cui siamo stati inclusi nella manifestazione) – dicono praticamente tutto della reale popolarità del rugby: Irlanda-Francia dello scorso febbraio, trasmessa dall’emittente del servizio pubblico transalpino France Televisions, ha registrato una media di 5,9 milioni di spettatori (con un picco di 7,2) e uno share del 37,3%. Il 50-10 inflitto dai galletti agli Azzurri non ha certo raggiunto gli stessi dati record ma si è attestato su 4,1 milioni di telespettatori, con share del 33,1%.
Sul canale scozzese STV la vittoria della Scozia a Londra ha avuto il mostruoso share del 52% con un picco 1,2 milioni di spettatori.
E da noi? I dati diffusi da Discovery per Inghilterra-Italia dell’ultimo Sei Nazioni parlano di 323mila spettatori con share del 2,1%.
Dati che evidenziano, ancora una volta, la scarsa popolarità del rugby in un paese di 60milioni di abitanti. Senza alcuna possibilità di trincerarsi dietro al fatto che DMAX non sia posizionato tra i canali a una sola cifra del telecomando. Anche quando il rugby veniva trasmesso da LA7 – e parliamo di un’era televisiva fa dal punto di vista dell’offerta canali e della misurazione dei dati – la partita-evento con gli All Blacks a San Siro del 2009 non andò oltre gli 1,7milioni di ascoltatori con share del 13%.
Evitiamo un paragone con i dati dei test match autunnali che risulterebbe troppo impietoso, basti dire che con avversari del calibro di Sudafrica, Australia o Argentina le partite si disputano in stadi di media capienza come quello di Firenze o Padova (nella regione più ovale che abbiamo!) senza nemmeno riuscire a riempirli.
Lo stesso dicasi per lo spazio che il rugby italiano riesce a ricavarsi sui quotidiani nazionali. Che, giustamente da loro punto di vista, spesso dedicano al rugby un trafiletto nelle ultime pagine salvo rarissime occasioni. Spazio che spesso viene concesso grazie all’impegno e alla propositività di giornalisti appassionati di palla ovale.
Questi fatti fanno emergere un’altra problematica non secondaria: il valore del prodotto rugby per gli sponsor. Le cifre ufficiali delle sponsorship non vengono mai rese note ma, giusto per fare un esempio, risulta che il contratto di BT main partner della Federazione Scozzese (che comprende l’essere title sponsor dello stadio Murrayfiled) valga quasi 5milioni di sterline l’anno. L’ormai ex main sponsor dell’Italia, sempre secondo indiscrezioni, portava invece una cifra intorno ai 2.4milioni di euro a stagione.
Non solo, la maglia azzurra e i nostri atleti (salvo Castrogiovanni qualche anno fa) non sono praticamente mai stati protagonisti di campagne pubblicitarie che siano andate in onda al di fuori dalla cerchia del rugby contribuendo così a promuovere, oltre all’immagine dell’azienda, anche quella del nostro sport.
Anzi, per la verità non sono molti nemmeno gli sponsor FIR o legati al rugby che investono nei break pubblicitari generando un incentivo per i broadcaster ad acquistarne i diritti.
In conclusione
Questa nostro tentativo di scattare una fotografia del rugby italiano nello scenario di ovalia, non ha la presunzione di essere completo, definitivo e tanto meno di essere una giustificazione a una situazione che sicuramente potrebbe essere un po’ diversa.
Che negli ultimi vent’anni abbondanti, sfruttando le risorse e la visibilità che ci ha regalato la partecipazione al Sei Nazioni, si potesse fare meglio e siano state percorse delle strade rivelatesi poco redditizie non si può negare, ma non considerare i nostri risultati in un contesto più ampio e complesso di quanto spesso si faccia e fare dei paragoni con realtà che sono profondamente diverse dalla nostra appare tanto superficiale quanto sbagliato.
Un sistema che sia di gioco, di organizzazione dei campionati, di reclutamento e formazione dei talenti non può non tenere conto di tutto il background, degli elementi di cui abbiamo parlato prima e di tanti altri fattori che probabilmente non abbiamo considerato o volutamente non abbiamo trattato per non diventare (ancor più) prolissi.
Eddie Jones quando nel 2012 arrivò sulla panchina del Giappone, rendendosi conto della necessità di lavorare oltre che su tecnica e tattica anche sul carente aspetto fisico dei giocatori, ebbe l’ingegnosa idea di mettere nel piano di lavoro un allenamento in palestra alle 5 di mattina in modo che, con le dovute ore di riposo, si facessero tre allenamenti al giorno anziché due. Una soluzione per accorciare i tempi e colmare il gap con gli avversari. Ma, come ha affermato lo stesso Jones, è solo grazie alla profonda dedizione al lavoro e al sacrificio insista da sempre nella cultura e nella società giapponese che ha potuto chiedere ai suoi giocatori di puntare la sveglia alle 4.30 del mattino per fare una sessione in palestra.
La capacità di migliorarsi e di crescere si ottiene solo conoscendo sé stessi, analizzandosi a 360 gradi con imparzialità e distacco, cercando di correggere le proprie debolezze e di sfruttare maggiormente i propri punti di forza, non sperando che si possano rappezzare buchi qua e la o pensando che si possano copiare modelli e comportamenti altrui.
I risultati possono arrivare solo dalla consapevolezza, dall’identificare e programmare un percorso adatto alle proprie risorse e caratteristiche e facendolo seguire da una serio e paziente lavoro.
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