Il tallonatore del Bordeaux ha esordito in nazionale lo scorso sabato
Per uno che aveva deciso di non volerci avere niente a che fare, con il rugby, Joseph Dweba non se la cava affatto male con la palla ovale.
Emerso nei Cheetahs protagonisti in Pro14, passato poi al Bordeaux dove milita oggi, il tallonatore 25enne ha ottenuto sabato scorso il suo primo cap internazionale per gli Springboks contro l’Argentina nel Rugby Championship, dopo aver giocato contro i Lions nella partita non ufficiale fra la selezione e il Sudafrica A.
Una storia di riscatto sociale, la sua, nato e cresciuto a Carletonville, nel Gauteng, città nota per ospitare il più grande giacimento d’oro del mondo.
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Una ricchezza, quella del metallo più prezioso, appannaggio di pochi. Per i più, le miniere di Carletonville sono solo un modo come un altro di spezzarsi la schiena e portare a casa uno stipendio. Quello che faceva anche il padre di Joseph Dweba, Sam, mentre cresceva con intermittente e lacunosa presenza i diversi figli avuti da diverse donne.
“La maggior parte dei miei amici oggi sono finiti in miniera. Qualcuno è in brutti giri, tanti di loro sono morti” ricorda il tallonatore della sua infanzia nella township ai margini della città, dove tante persone vivono in baracche costruite sui terreni delle grandi compagnie minerarie.
“Non credo di aver mai raccontato questa storia a nessuno, ma una volta ho dato fuoco alla baracca di mia madre. Fu un incidente: era pieno di zanzare e volevo ucciderle, così accesi una candela, ma troppo vicino al frigorifero, che cominciò a fare scintille e poi prese fuoco.”
“Mia madre era furiosa, ma in fondo capiva che ero solo un bambino che non sapeva cosa stava facendo. Lei è stata la persona che mi ha sempre guardato le spalle, che mi ha sempre supportato.”
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“In quel periodo, a volte, vivevamo in una stanza sul retro di una casa dove mia madre lavorava come donna di casa. Lì ho imparato l’Afrikaans dai bambini che ci vivevano, e ho giocato le mie prime partitelle di touch rugby nel cortile insieme a loro.”
Eppure con la palla ovale è stato tutt’altro che amore a prima vista, racconta Dweba: “A dire il vero, lo odiavo. Mi piaceva l’atletica. Un insegnante a scuola mi spinse a provare il rugby, dopo il primo allenamento dovevo camminare fino a casa e incominciò a diluviare. Decisi che non faceva per me.”
Per fortuna quell’insegnante non si diede per vinto, e lo convinse a tornare. Tornare per restare.
Alla high school, Dweba cambia quattro diversi istituti. L’ultimo, la Hoerskool Florida dista 40 chilometri da casa. All’andata riesce sempre a trovare un passaggio, ma per il ritorno deve arrangiarsi in qualche modo: viaggi interminabili, ritorno a tarda sera, compiti durante la notte prima di dormire e ripartire il mattino seguente.
Sacrifici che gli valgono la convocazione nella squadra under 16 dei Lions, la franchigia del Gauteng, e nella selezione delle South African Schools, il primo gradino delle nazionali giovanili sudafricane. Poi, con l’aiuto dell’amico di una vita Ox Nché, arriva la borsa di studio offerta dai Cheetahs, la faticosa fine degli studi e l’ingresso nelle giovanili della squadra di Bloemfontein, dove Franco Smith gli presta un bicicletta per andare e venire dagli allenamenti, ma cosa vuoi che siano a quel punto una decina di chilometri al giorno per uno che se n’è sciroppati a centinaia negli anni precedenti: la carriera è decollata.
Dweba, ora che è un giocatore professionista in uno dei club più importanti di Francia, si ricorda spesso della propria provenienza: “Ho visto quello che è accaduto alle persone intorno a me. Sono finiti in miniera, o nella droga, o hanno incominciato a rubare. Alcuni di loro sono morti, altri sono in carcere. Il rugby mi ha dato un’uscita da quella situazione, mi ha dato l’opportunità di essere la miglior versione di me stesso.”
“Ora che ho un figlio e una famiglia, so di avere anche una responsabilità. E questo mi dà tutta la motivazione di cui ho bisogno.”
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