Il terza linea due volte campione d’Italia e vincitore – col Benetton – della Rainbow Cup, racconta ad OnRugby della decisione di lasciare il rugby giocato
Ha divertito, fatto discutere, esaltato i tifosi e alzato trofei. Il terza linea classe ’90 Marco Barbini non è stato certo un giocatore qualunque: ovunque sia andato ha lasciato la sua firma, vincendo due campionati italiani con Petrarca (2011) e Mogliano (2013), un premio di MPV della stagione – sempre nel 2011 – per concludere con la ciliegina sulla torta della Rainbow Cup conquistata col Benetton, chiudendo in bellezza dopo 7 anni con la franchigia trevigiana.
Dopo 11 anni di carriera ad alti livelli, Marco Barbini ha deciso di dire basta, annunciando il suo ritiro. Lo aspetta un figlio appena arrivato e un futuro lontano dai campi, e ai microfoni di OnRugby ha parlato della sua decisione di chiudere con la palla ovale.
Ciao Marco, innanzitutto come stai?
Bene, certamente il primo figlio è qualcosa di bellissimo. Ci è voluto un po’ per prendere i suoi ritmi e abituarsi ma adesso cominciamo a godercelo per bene.
Un’ultima stagione a dir poco rocambolesca, quella al Benetton. Come l’hai vissuta?
È stato un anno particolare, tra covid e risultati: alla fine siamo riusciti a chiudere tornando al nostro vecchio “stile” e abbiamo concluso la stagione in un modo incredibile. Un bel ricordo.
Quali sono le tue prospettive per il futuro?
Nessuna. Ho deciso di chiudere così la mia carriera. Io ho sempre giocato per divertirmi e per stare a un bel livello. Ho visto come un segnale l’andare via da Treviso l’ho visto, così come lo è stato l’arrivo di mio figlio. Ho deciso di voltare pagina e iniziare una nuova scalata con obiettivi diversi.
È un addio, quindi?
Sì, detta in maniera molto cruda. Ovviamente spero sia solo un arrivederci con tante persone con cui ho condiviso ricordi incredibili
Per il futuro che progetti hai?
Credo che tutti gli sportivi di alto livello rimangano competitivi a 360°, oltre allo sport che praticano. Voltare pagina permette di mettersi in gioco. Il mondo dello sport è bello ma “preclude” un po’ la crescita lavorativa: quindi quando si volta pagina si parte da zero, per cui ho deciso di farlo un po’ prima in modo da avere più tempo per arrivare al livello di quelli della mia età e costruire qualcosa nel mondo del lavoro così come ho fatto in quello sportivo. Per adesso la priorità è stata mio figlio, che è nato due settimana fa, ora che ci siamo assestati il mio obiettivo principale sarà costruirmi un futuro.
Hai avuto offerte? Hanno provato a farti cambiare idea?
Sì, qualcuno c’è stato. Anche gli amici, la famiglia e le persone con cui ho condiviso tanta vita rugbistica insieme, ci hanno provato e ci stanno ancora provando. La cosa mi fa piacere perché vuol dire che ho lasciato qualcosa di buono e mi vogliono avere ancora tra i piedi (ride n.d.r.) ma ormai la scelta l’ho fatta.
Cosa ti resta di questi 10 anni e oltre di carriera?
Credo di aver dato tanto ai miei compagni e alle società in cui sono stato, anche se il rugby è un gioco di squadra e io sono solo un singolo giocatore. Ho anche ricevuto tanto da questo sport, ho conosciuto persone che considero fratelli e non potrò mai smettere di dire grazie. Ovviamente rimane sempre un angolino per le delusioni che ti portano a pensare che avresti potuto fare qualcosa di diverso, ma sono cose che aiutano anche a fare meglio per il futuro. Mi ha fatto piacere aver fatto divertire i tifosi e aver conosciuto tante persone di nazionalità e culture diverse che mi hanno fatto crescere umanamente.
C’è stato un periodo in cui tanti tifosi reclamavano a gran voce la tua chiamata in nazionale. Che ricordi hai di quella fase?
Mi ricordo. È ovvio che dispiace non essere chiamati in nazionale. Alla fine noi giochiamo per passione e divertimento ma lo sport è diventato anche uno show in cui bisogna far divertire il pubblico: col mio stile di gioco ero portato a farlo e quindi avevo tifosi che inneggiavano alla mia convocazione. Non arrivava per motivi vari ma alla fine non era una decisione che prendevo io, sicuramente ci sono rimasto male, anche se a volte mi faceva piacere restare a giocare coi compagni di squadra: bisogna sempre trovare la parte positiva, anche quando va tutto male. Alla fine la scelta non la prendevo io, per me l’importante era scendere in campo e divertirmi.
Per ora quindi non hai in programma di allenare o di ricoprire altri ruoli nel mondo del rugby?
No, forse potrei anche avere le qualità per fare l’allenatore o il “consigliere”, diciamola così, ma mi scontrerei con un’idea di gioco generale diversa da quella che ho io.
Posso immaginare che cose tipo l’ultima serie tra Lions e Sudafrica non si avvicinino molto al tuo modo di intendere il rugby…
Sì, il rugby si sta spostando in una direzione che non fa per me. Ovviamente gli All Blacks mi divertono e sono sempre belli da vedere, ma da altre parti – dove noi italiani prendiamo più ispirazione – c’è un tipo di rugby che non fa per me, per cui non mi divertirei.
Francesco Palma
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