Giovani sì, giovani no: l’eterno dilemma del rugby italiano (e non solo)

Le ultime dichiarazioni del CT azzurro richiamano, ancora una volta, un discorso sempre attuale

Rugby e giovani ph. S. Pessina

Le parole del CT della nazionale Kieran Crowley sono solo l’ultimo atto di una storia infinita. Il neozelandese è stato chiaro: ci sono ruoli in cui l’Italia è chiaramente scoperta a causa della mancanza di esperienza dei suoi interpreti, e ha fatto un esempio preciso, quello degli estremi. I numeri 15 titolari di entrambe le franchigie sono infatti stranieri, Junior Laloifi alle Zebre e Andries Coetzee al Benetton (e Rhyno Smith, che in teoria sarebbe il secondo, fa l’apertura).

Lo dimostrano anche le convocazioni fatte dallo stesso allenatore: gli estremi chiamati sono Matteo Minozzi – indubbiamente un fuoriclasse, ma non è al 100% e ha giocato pochissimo quest’anno – ed Edoardo Padovani, che viene da un infortunio e in questa stagione il campo non lo ha ancora visto. Due giocatori di cui si conoscono le qualità e che sono indubbiamente affidabili, ma se oltre a loro non vengono chiamati altri nonostante non siano in condizioni ottimali, evidentemente lo staff azzurro non considera nessun altro pronto per affrontare squadre come All Blacks e Argentina.

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La domanda sorge spontanea: perché non si fanno giocare i giovani? È solo una questione di esterofilia? Chiaramente, negli ultimi anni non tutti gli stranieri passati per le franchigie si sono rivelati dei fenomeni, anzi. Ma è anche vero che si tratta di squadre che devono dire la loro nei tornei che disputano, e che di conseguenza hanno come obiettivo lo schierare la miglior formazione possibile. I giovani devono giocare, certo, ma se c’è qualcuno che merita più di loro, perché devono togliergli il posto solo perché “giovani”? Non siamo certo noi ad aver inventato questa massima: sono parole e musica anche di Julio Velasco, uno dei tecnici più vincenti della storia dello sport italiano con la nazionale di volley maschile, allenatore di quella Generazione di fenomeni che negli anni ’90 ha vinto tutto.

Inoltre, non è detto che “lanciare” (in alcuni casi nel vero senso della parola) in certe partite giovani ancora non pronti al livello internazionale possa essere una strategia sempre vincente. Un po’ come prendere un bambino e buttarlo in acqua per fare in modo che impari a nuotare: o impara o affoga, ma il rugby italiano non ha così tanta abbondanza da permettersi di far affogare i suoi ragazzi.

Del resto, lo stesso Kieran Crowley è uno che non si è fatto problemi a utilizzare i giovani quando li considerava pronti. Nel 2020, Paolo Garbisi nel giro di un mese si è preso il posto da titolare al Benetton – con il neozelandese in panchina – e dopo un altro mese Franco Smith gli ha affidato le chiavi della mediana azzurra. E proprio dalle parti di Treviso non si può dire che non si affidino ai nuovi talenti quando serve, e quando sono pronti: basta leggere le formazioni schierate quest’anno, o pensare che Bortolami si sia affidato a un’apertura 19enne – Leonardo Marin – per risolvere all’ultimo secondo la partita con Edimburgo. E infatti è tra i convocati azzurri, dopo aver deciso anche il difficile match della Nazionale A a Madrid.

Con questo, non si vuole ovviamente minimizzare una questione importante, e in Italia – anche in altri sport – a volte si tende ad essere eccessivamente protettivi (o poco fiduciosi, dipende dai punti di vista) nei confronti dei giovani. Spesso si ha paura di bruciarli lanciandoli troppo presto, o si considerano atleti di 23-24 anni ancora “giovani di prospettiva”. Non è il caso del rugby italiano, però. Anzi, dalle parti della palla ovale c’è forse il problema opposto: a volte diventa necessario far debuttare ragazzi non ancora pronti, per mancanza di alternative. La verità sta nel mezzo? Forse.

Francesco Palma

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