Due sconfitte in cinque partite per la squadra di Ian Foster, che porta a termine una stagione di ombre e luci
Può la squadra che ha siglato il record di sempre per il maggior numero di punti segnati in un anno solare essere al tempo stesso una delle più sotto pressione del panorama internazionale dopo la finestra dei test match di novembre?
La risposta è sì se quella squadra sono gli All Blacks, che da 10 anni non perdevano due partite consecutive. Per di più, quelle due gare sono state anche le uniche con un certo grado di competizione, visto che nelle tre precedenti la nazionale neozelandese aveva vinto contro gli Stati Uniti (infliggendo loro la più grave sconfitta di sempre), il Galles (orfano dei giocatori militanti all’estero e decimato dagli infortuni) e l’Italia (tu sai, caro lettore, e non importa approfondire).
Non è comoda la sedia su cui Ian Foster andrà a sedersi alla fine di questa lunghissima stagione per il rugby neozelandese. Lo scorso agosto la federazione ha rinnovato il contratto all’head coach fino alla Rugby World Cup 2023, ma dopo questo novembre tutto il movimento down under si chiede se sia stata la scelta giusta.
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Non solo per le due meritate sconfitte contro Irlanda e Francia, arrivate al termine di un estenuante percorso internazionale di 13 settimane fra Rugby Championship e trasferte in Europa, di cui la squadra ha infine pagato il prezzo. Uno scotto che NZ Rugby aveva probabilmente messo in conto, sacrificando parte della qualità sportiva del proprio prodotto in nome della moltiplicazione degli eventi e, dunque, degli introiti.
La ragione, casomai, è la perdita di uno status. Dalla Rugby World Cup 2019 in poi, in questo nuovo ciclo, gli All Blacks non sembrano più essere il benchmark assoluto di riferimento del rugby mondiale. Siamo abituati a una Nuova Zelanda anni luce avanti a tutti gli altri, mentre ora, banalmente, sono solo una delle migliori squadre al mondo.
Le responsabilità di Foster e del suo staff sono parziali. Non sono inesistenti: sotto la sua guida, gli All Blacks non hanno offerto nessuna particolare innovazione tattica o strategica, mentre più di una volta sono sembrati mettere in atto un piano di gioco deleterio. È successo con l’Italia e con la Francia: gli All Blacks hanno cercato troppo di muovere il pallone da una parte all’altra del campo, finendo per venire schiacciati dalla pressione della salita difensiva.
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In entrambi i casi sono tornati in campo giocando per linee maggiormente dirette e gli effetti si sono visti immediatamente, ma a Parigi non è bastato per ribaltare il tavolo. Sorprendono anche alcune delle scelte di formazione fatte dall’head coach e dal suo staff, che devono ancora trovare la quadra in due zone del campo come la terza linea e i centri.
Al tempo stesso, però, gli All Blacks sembrano presi in mezzo da un ricambio generazionale un po’ lento, che proprio in quelle posizioni non ha ancora prodotto giocatori all’altezza di quelli di livello assoluto che se ne sono andati, come Kieran Read e Sonny Bill Williams. È mancata la classe di Jack Goodhue, in mezzo al campo, e la temporanea assenza di Anton Lienert-Brown ha fatto il resto, mentre in terza linea manca forse la fiducia per dare più minutaggio e continuità a Dalton Papali’i e Hoskins Sotutu.
Più di ogni altra cosa, però, ha inciso sulle ultime deludenti prestazioni un generale appannamento, una perdita anche solo marginale dello stato di forma migliore, dovuta a una stagione lunga ed esigente. In questo momento gli All Blacks rimangono al secondo posto del ranking mondiale: sono pur sempre la squadra che ha dominato il Rugby Championship senza patemi e che, come si diceva in apertura, ha portato a casa un record importante come quello del miglior attacco di sempre in un anno solare.
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Eppure, nonostante la pubblica presa di posizione della federazione nel dare fiducia a Ian Foster, qualche dubbio rimane. Un cambio di marcia, a due anni dalla Rugby World Cup, appare necessario.
Partite disputate: 5, 3V 2P
Miglior giocatore di novembre: Will Jordan
Debuttanti: Josh Lord (v USA)
Lorenzo Calamai
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