Tante le cose andate storte all’Olimpico, ma la priorità adesso è smettere di essere i propri peggiori nemici
Un Sei Nazioni durissimo. Ce lo siamo detti tutti, già prima del Torneo, quanto sarebbe stato difficile: lo hanno detto i giocatori, lo hanno detto i tecnici; i dirigenti, gli addetti ai lavori, gli opinionisti; i tifosi, gli appassionati, la stampa di casa e d’oltreconfine.
La verità è che una sconfitta di 33 punti contro l’Inghilterra era da mettere in conto. L’Italia viene da un Sei Nazioni 2021 dove ha subito sconfitte di 23, 31, 40, 41 e 42 lunghezze, e nel frattempo, sebbene un po’ di acqua sotto ai ponti sia passata, il gap fra noi e gli altri non si è certo ridotto tutto all’improvviso.
Se l’Italia aveva generato nuove speranze una settimana fa, non possono essere tutte evaporate nel giro di 7 giorni.
Non per questo la sconfitta dell’Olimpico di domenica pomeriggio non fa male: dopo essere stati fondamentalmente in partita per 65 minuti a Parigi, essere da subito tagliati fuori nel punteggio e manifestamente inferiori nella prestazione brucia.
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Per rinnovare la similitudine che vedeva in Francia-Italia un parallelo con Italia-All Blacks di novembre, allo stesso modo l’Inghilterra, come l’Argentina in autunno, si presentava a Roma minacciando di avere dei punti di forza che gli Azzurri avrebbero mal digerito in maniera più pronunciata rispetto a quelli dei precedenti avversari.
Gli albionici, in effetti, si sono presentati con un ricetta vincente: in attacco, possesso assicurato dalla presenza di sostegni ravvicinatissimi al portatore, a costo di togliere opzioni alla fase offensiva, e ritmo indiavolato; in difesa, attendiamo semplicemente che gli avversari ci restituiscano il pallone.
Così è stato, in effetti, ed è quello il primo, fondamentale progresso che gli Azzurri devono mettere al centro del loro futuro prossimo: tagliare gli errori gratuiti che in questo momento concedono all’opposizione di dormire sonni tranquilli.
Errori non forzati
L’Inghilterra ha presentato sì un piano di gioco perfetto per colpire l’Italia nei suoi punti deboli, come ad esempio una difesa forte al centro ma che concede spazio sui lati del campo, ma è chiaro che ha un’identità offensiva in transizione, passando dalla compassata sapienza tattica della coppia Youngs-Farrell all’ipercinesia del duo Randall-Smith. Nelle prime battute della partita si è vista una certa mancanza di perfetta sintonizzazione: i primi tre possessi inglesi si sono chiusi con 3 in-avanti.
🔵 #Italrugby @nachobrex dopo #ITAvENG 🇮🇹 🏴
🎥 ‘Abbiamo creato delle occasioni ma non siamo riusciti a concretizzarle: dovremo fare una profonda analisi, singolarmente e come squadra@SixNationsRugby #insieme #rugbypassioneitaliana pic.twitter.com/ojyVz8FobJ
— Italrugby (@Federugby) February 13, 2022
Gli Azzurri però hanno sempre concesso loro di uscire gratis di prigione, come dice la carta degli imprevisti più ambita del Monopoli: da Braam Steyn che regala il primo pallone in attacco con un inutile placcaggio in ritardo a Federico Ruzza davvero troppo lento a rotolare via, l’Italia regala la risalita del campo quando l’Inghilterra si trova nella propria metà campo; dalla rimessa laterale che consegue da quel fallo di Ruzza nasce il multifase che si chiude con Federico Mori che si fa colpevolmente aggirare da Max Malins per la meta di Marcus Smith.
Ma basta pensare ad altri piccoli momenti come il calcio preso da Niccolò Cannone immediatamente dopo il restart della seconda meta, o al pallone recuperato nella battaglia aerea che Stephen Varney passa agli avversari innescando l’azione della terza meta (quella dello splendido passaggio di Ellis Genge, merito anche a chi c’è dall’altra parte) per accorgersi che ciò che l’Italia deve immediatamente ridurre sono gli errori non forzati, siano essi di disciplina o di gesto tecnico.
Colti in fallo
Qualche errore, va detto, viene anche dallo staff tecnico: in occasione della seconda meta degli inglesi, tutto nasce da una rimessa laterale battuta con 6 giocatori nell’allineamento, a cui l’Italia ne oppone altrettanti, ma senza schierare un ricevitore, che in difesa è quel giocatore che si occupa di collegare la coda della touche con il muro difensivo, che per regolamento deve rimanere a 10 metri di distanza.
Una decisione strategica che l’Italia aveva già applicato in due casi contro la Francia, nel secondo tempo della partita di Parigi, e che in quelle circostanze aveva pagato. Qui, invece, l’Inghilterra è brava ad accorgersi della decisione azzurra e a sfruttarla a proprio favore: Curry finge di impostare la maul, cede il pallone a Randall che può correre in campo aperto, indisturbato e con tre sostegni, fino a portare l’ovale nei 5 metri avversari.
Poche fasi dopo, Jamie George segnerà con un pick and go.
Sarà un tipo di schieramento da rimessa laterale che l’Italia, nel tentativo di rinforzare la linea arretrata, presenterà altre 2 volte nell’incontro, subendo in entrambe le occasioni altri break offensivi e discrete perdite di metri, anche se sulle conseguenze non arriveranno delle marcature.
Una decisione strana, quella di questi casi particolari, vista l’insistenza con la quale nel rugby di oggi si cerca di attaccare proprio quella zona di campo alla coda della rimessa laterale. D’altra parte, però, la coperta è notoriamente corta: cercando di rendere più solida una parte della difesa, ci si è scoperti altrove.
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L’attacco che non funziona
La fase offensiva, invece, è un altro paio di maniche. Sebbene sarebbe utile tagliare i diversi errori che l’Italia commette, ci vorrà più tempo per vedere miglioramenti concreti.
A Roma gli Azzurri hanno provato ad alzare il ritmo del gioco, con una maggiore attenzione al lavoro sul punto d’incontro (51% di ruck sotto i 3 secondi contro il 46 di Parigi, complice anche la mancata contesa inglese), ma hanno finito soprattutto per cadere in una frenesia improduttiva, nonostante un generale miglioramento nella qualità dei ball carriers.
In due occasioni è mancato solamente l’ultimo tocco: fuori misura quello di Steyn dopo il chip a scavalcare la difesa di Garbisi per Brex, con il mediano d’apertura che poi ha messo un po’ troppa forza anche nel calcetto a scavalcare a 5 metri dalla linea di meta che avrebbe potuto portare alla marcatura.
Troppo poco però per una squadra che ha avuto 4’41” di possesso nei 22 metri avversari, solo 17″ in meno degli avversari che di punti ne hanno segnati 33.
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Anche se l’impressione è che con Franco Smith ci fosse voluto meno tempo per implementare un sistema offensivo che appariva più chiaro e strutturato, è evidente che ci sarà bisogno di tempo per affinare una fase che ha bisogno di maggiore pulizia tecnica, di un ulteriore miglioramento sotto il profilo della salvaguardia del possesso e della qualità dei portatori, oltre che dell’intensità.
L’Italia ha decisamente bisogno di cambiare marcia in attacco. È una squadra che inevitabilmente subirà dei punti. Sebbene fosse chiaramente necessario un focus sull’aspetto difensivo in questi primi mesi, ha bisogno di avere la certezza di poterne marcare quando in territorio avversario. Per il momento siamo ancora alla ricerca di una identità, di quella cosa che abbiamo imparato a fare bene e della quale sappiamo di poterci fidare quando si apre una finestra di opportunità per mettere punti sul tabellone. Per un periodo è stata la mischia chiusa, poi era diventato il drive da rimessa laterale, adesso siamo alla ricerca di una nuova soluzione.
Mentre lavoriamo per trovarla, però, incominciamo dal primo passo: smettiamola di azzopparci da soli, l’Italia in queste prime due partite è stata la peggior nemica di sé stessa.
Lorenzo Calamai
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