Dopo la finale di Coppa Italia, la direttrice di gara italiana Clara Munarini si racconta, fra traguardi da raggiungere e pregiudizi da scardinare
La notizia ormai è di dominio pubblico: Clara Munarini è stata la prima donna ad arbitrare una finale seniores in Italia. Un traguardo importante, al quale però l’arbitra vuole dare il giusto peso, senza esagerare. Del resto, come lei stessa ammette, se ancora oggi siamo qui a parlarne vuol dire che c’è ancora qualche problema.
Al di là del traguardo in sé, quella di Clara Munarini è stata una stagione che l’ha vista spesso protagonista, con direzioni di gara di livello culminate con la partecipazione al 6 Nazioni femminile, prima ancora che alla finale di Coppa Italia. La direttrice di gara ha raccontato a OnRugby le sue impressioni, parlando non solo di rugby, tra le difficoltà nel gestire i ritmi tra lavoro di tutti i giorni e weekend e i tanti pregiudizi ancora da scardinare.
Cos’ha significato per te arbitrare una finale di Coppa Italia?
“Il raggiungimento di un grande obiettivo, dopo una stagione molto soddisfacente. Poi, essere la prima donna ad arbitrare una finale seniores in Italia ha un significato al quale però non voglio dare nemmeno troppo peso. È una cosa che ha valore per me, per l’arbitra Clara. È la chiusura di una stagione fantastica e un grande riconoscimento. Non voglio pensare troppo al fatto che sia la prima volta di una donna e a tutto quello che ne consegue”.
Ecco, il fatto che questa cosa abbia fatto così tanto notizia, è più un bene o un male?
“Entrambe le cose, direi. È un bene perché magari ha attirato l’attenzione degli increduli o di chi non ci ha mai pensato, e poi penso alle colleghe, alle ragazze, alle donne che credono di non potersi approcciare a un contesto di questo tipo e dopo avermi vista invece cominciano a pensarci. Resta negativo il fatto che sia stata una notizia: l’obiettivo sarà raggiunto quando non sarà più strano e non ci sarà più bisogno di chiedere ‘come ti senti ad essere la prima donna? Ora i maschi ti rispettano?’ e altre cose del genere”.
Sei stata anche giudice di linea nello United Rugby Championship, pensi che ci sarà la possibilità per te di dirigere una partita in tornei di questo tipo?
“Secondo me per il momento no, c’è poco spazio. Abbiamo due colleghi che stanno facendo molto bene a livello internazionale e non credo ci siano possibilità di salire a quel livello, che tra l’altro richiede un certo status professionistico, che io non ho. Poi mai dire mai, per carità, però a livello di arbitraggio i campionati professionistici sono gestiti da arbitri professionisti, con un livello che probabilmente io devo ancora raggiungere. Ho fatto la giudice di linea in URC e penso di poterlo fare ancora, anche se – parlando di crescita mia personale – preferisco comunque arbitrare”.
Com’è gestire il doppio impegno tra lavoro quotidiano e arbitraggio?
“Non è semplice, bisogna organizzare la settimana sulla base dei carichi di lavoro e delle trasferte, e trovare il tempo per allenarsi dopo 8-9-10 ore in ufficio. È un grande incastro di tempi e slot: Google Calendar è il nostro migliore amico. Però quando ti muove la passione il tempo in qualche modo si trova”.
Ancora oggi, quando si parla di donne, si legge spesso “bella e brava”, “moglie e madre”, “fidanzata/moglie di…”: quanto ti dà fastidio?
“Lo odio. Non ha nulla a che vedere con il ruolo, le competenze e la professionalità. Non vedo che genere di curiosità soddisfino questo tipo di informazioni. Capisco la necessità di costruire un corollario intorno al personaggio, ma si tratta di un retaggio che ci portiamo dietro e che mi auguro prima o poi venga scardinato. Piuttosto, se proprio bisogna parlare di cose extra sportive, è più interessante sapere se uno ha la passione del giardinaggio…”
Hai mai letto cose di questo tipo su di te?
“In parte. Principalmente sulla mia situazione sentimentale: avendo una relazione con un collega arbitro è abbastanza facile collegare la cosa. E poi “bella e brava” l’ho dovuto leggere svariate volte. Capisco che faccia parte di un tipo di narrazione alla quale siamo abituati, però “bello e bravo” non si dice mai”.
Hai già detto più volte di voler essere chiamata “arbitra”, spesso però si legge ancora “arbitro donna”. Cosa ne pensi?
“Non mi piace perché sarebbe come dire “maestro donna”. Esiste il termine “arbitra”, usiamolo”.
Francesco Palma
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