Si è chiusa l’edizione 2022: una sintesi di come le squadre riemergono dalle 8 settimane di torneo
Il rugby è quello sport che si gioca quindici contro quindici e alla fine vincono gli All Blacks.
Rimane questa l’unica certezza, parafrasi del celebre adagio della palla tonda, che lascia il Rugby Championship 2022. Nelle sue otto settimane di durata complessiva il torneo ci ha divertito, attratto, ci ha offerto spettacolo.
Un Rugby Championship equilibrato e strano, perché equilibrato è strano per una competizione che ha spesso vissuto di valori assoluti prestabiliti, una competizione a quattro che spesso è stata nel concreto una corsa a due e tante volte una marcia trionfale di una singola compagine verso il successo. Di quale lo avete già letto alla prima riga.
La verità è che il torneo dell’Emisfero Sud lascia molti dubbi in casa delle quattro squadre che ne escono giusto per riprendere fiato e rituffarsi poi negli internazionali di novembre, a chiusura della stagione sportiva australe.
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Nessuna formazione chiude con un bilancio davvero in negativo, anche se Argentina e Nuova Zelanda, in fin dei conti, possono essere le più soddisfatte.
La squadra di Michael Cheika si è ritrovata, dopo un 2021 difficile, recuperando fiducia in sé stessa. E’ sembrata soprattutto questa libertà mentale, questa fede nei propri mezzi, a consentire ai Pumas di mettere in campo prestazioni di grande smalto. In più, ha contribuito l’emergere di alcuni giovani giocatori, come Juan Cruz Mallìa ad estremo e Juan Martìn Gonzàlez Samso in terza linea.
I sudamericani terminano in ottava posizione nel ranking mondiale, ma hanno ottenuto due vittorie storiche, una per dimensioni (Australia) e l’altra per contesto (All Blacks), oltre a rimanere competitivi in entrambe le gare contro il Sudafrica. Adesso la squadra ha bisogno di confermarsi nel tour contro Inghilterra, Galles e Scozia, magari trovando alternative in alcune posizioni delicate, come quella del mediano di apertura. Tutto sommato, però, forse è la squadra che paradossalmente può uscire più soddisfatta dal torneo, nonostante il solito ultimo posto.
La Nuova Zelanda ne esce invece in crescita grazie a tre vittorie consecutive che sembravano non essere più nelle corde di questa squadra.
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Attenzione, però, a dire che gli All Blacks sono tornati. La nazionale in maglia nera non è più la locomotiva del rugby mondiale, un movimento anni luce avanti agli altri. Non se n’erano andati per un momento, scordandosi come si gioca. Semplicemente oggi sono una delle squadre migliori al mondo, non una squadra sola al comando come ci aveva abituato ad essere.
Ian Foster ha il 67% di vittorie da quando è alla guida della squadra, con 20 vittorie in 30 partite. Una percentuale superiore a quella di Jaques Nienaber del Sudafrica (64%) e a quella di Dave Rennie (un magrissimo 38%), che sono stati messi molto meno in dubbio di lui, anche se in Australia si comincia a mugugnare sul rendimento dell’ex tecnico di Chiefs e Glasgow Warriors.
Il Sudafrica ha fallito una grossa occasione di vincere il Rugby Championship, competizione alla quale arrivava da favorito, perché tutte le fiches a disposizione sono puntate sulla doppietta mondiale che porterebbe gli Springboks ad essere la prima squadra a vincere quattro Rugby World Cup. In questo ultimo anno e mezzo Nienaber ha allargato le maglie delle selezioni, portando tanti giocatori a lavorare con la nazionale, ma rimanendo sempre a metà del guado quando poi si è trattato di fare il XV per andare in campo: una fiducia eccessiva nella capacità delle prime linee di ribaltare la gara a partita iniziata, facendo partire le seconde scelte in campo, e al contempo pochi esperimenti per dare esperienza ad alcuni volti nuovi (vedi l’accantonamento di Evan Roos, il miglior giocatore dello scorso URC).
L’Australia, invece, è drammaticamente schiacciata dall’impossibilità, per diversi fattori, di riuscire a schierare in maniera continuativa la propria miglior formazione, tanto che a questo punto non è neanche più chiaro quale sia, il miglior XV possibile. La sensazione è che i Wallabies possano essere competitivi contro qualunque avversario, ma che allo stesso tempo troppe volte finiscano per chiudere un incontro con in mano un pugno di mosche.
Insomma, una vera conclusione da trarre non c’è: il Rugby Championship 2022 ci restituisce un’immagine annebbiata, incerta delle cose. Ma come la mano gira sull’obiettivo di una macchina fotografica per mettere a fuoco l’oggetto osservato, così funziona l’anno che ci separa dalla Rugby World Cup: mesi che ci permetteranno di definire le cose.
Lorenzo Calamai
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