L’estremo azzurro racconta a OnRugby le difficoltà dopo il fallimento del club: “Per ora sto lasciando fare ai miei agenti, ci sono anche questioni extrarugbistiche da risolvere”
Matteo Minozzi fa parte delle 167 persone licenziate dopo il fallimento dei Wasps. Adesso bisogna ricominciare da capo, di nuovo, dopo un ultimo anno e mezzo costellato da infortuni e difficoltà: “Come sto? Non è proprio una domanda facile” dice a OnRugby. “A stare bene sto bene, ma chiaramente potrebbe andare meglio. La situazione è drammatica, credo sia il termine più adatto. Nella mia carriera ne ho avute di sventure e sfortune, ma dover affrontare un fallimento societario e trovarmi senza lavoro dall’oggi al domani in mezzo alla stagione tutto è meno che una situazione positiva.”
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Matteo, cosa è successo di preciso?
“Di base, dopo il trasferimento nel 2015 che ha portato la squadra da Londra a Coventry con un grande investimento, tra cui lo stadio di proprietà, i responsabili azionari hanno poi provato a rientrare dall’investimento stesso e a sanare i debiti che si erano creati. La pandemia ci ha dato una mazzata, perché i proventi principali sarebbero dovuti arrivare dallo stadio, che è rimasto vuoto per due anni e non sono arrivate entrate. Insieme all’impianto, infatti, c’è un hotel e un casinò, e c’era anche l’idea di costruire un megaparcheggio. Tutte cose che avrebbero dovuto risanare il debito, ma che per ovvii motivi non sono state finalizzate.”
Quando avete avuto la notizia del licenziamento?
“Nell’ultima riunione ci è stato detto che non avrebbe avuto senso entrare in amministrazione controllata per due settimane, come fatto da Worcester, perché comunque non si sarebbe mai trovato un compratore in tempi così brevi, per cui si è passati direttamente alla chiusura e al licenziamento di tutti. La situazione era ormai irreversibile. Dal punto di vista rugbistico è stata una cosa pesante, in questi anni al club ho avuto alti e bassi, dopo un grande primo anno e mezzo dove abbiamo anche conquistato la finale ho avuto tanti problemi fisici, poi l’occhio, poi il virus che per me che sono asmatico è stato ancora più problematico, poi le concussion dopo le quali non mi ricordavo nemmeno cosa avevo mangiato a colazione… Questa estate sono riuscito a conquistare anche la maglia da titolare, la settimana prossima avrei dovuto giocare contro Newcastle: mi stavano aspettando e sentivo la fiducia del club. Sentivo un fortissimo senso di appartenenza ai Wasps, mi sarebbe piaciuto fare lo stesso percorso di Andrea Masi: fare tutta la carriera qui e poi provare anche a lavorare nello staff. Devo tanto a loro: mi hanno voluto quando ero infortunato e nemmeno il chirurgo che mi ha operato pensava che sarei tornato a giocare.”
Oltre al danno sportivo, una cosa del genere crea problemi anche a livello personale. Alla fine andare vivere all’estero è un vero e proprio investimento…
“Come detto, i Wasps mi hanno dato tanto e sentivo di dover dare tanto a loro. Poi comunque con la mia compagna ci eravamo stabiliti in Inghilterra, lei lavora qui e pensavamo anche di comprare casa. Era un investimento di vita. Dall’oggi al domani è cambiato tutto. È diverso dal non vedersi rinnovato il contratto: in quel caso lo sai prima e hai dei mesi di tempo per riorganizzare la tua vita, mentre qui è successo tutto dal venerdì al sabato, e alla fine compromette tutto quello che avevo costruito in 3 anni e mezzo.”
Hai già avuto dei contatti con altre squadre? Hai avuto offerte?
“Ci sono stati degli interessamenti ma per ora nulla di concreto. In questa fase sto lasciando fare ai miei agenti perché devo gestire anche le situazioni extra-campo che ho spiegato prima, e sto pensando anche a quello. A livello di mercato è molto difficile trovare squadra a metà ottobre, soprattutto per chi non è inglese o francese, viste le regole che comunque privilegiano gli eleggibili per la Nazionale del Paese in questione e hanno un po’ bloccato il mercato per gli altri”.
Dall’Italia si è fatto sentire qualcuno? Ti piacerebbe tornare a giocarci?
“Sicuramente mi piacerebbe, è il mio Paese ed è casa mia, e a livello sportivo quest’anno sia Zebre che Benetton stanno ottenendo dei risultati, anche se in maniera diversa: i biancoverdi in maniera più concreta, vincendo delle partite, ma la proposta rugbistica e offensiva che stanno facendo le Zebre in questa stagione è molto interessante. Ti ripeto, è ancora tutto da vedere e sto lasciando fare a chi lavora con me, ma in questo momento la mia priorità è giocare. Poi ho 26 anni, ho bisogno anche di trovare stabilità in una situazione che mi renda sereno. Un conto è accettare di prendere e andare all’estero di punto in bianco a 21 anni, con tutte le sfide che comporta, un conto è farlo adesso dall’oggi al domani”.
Peraltro si è parlato in questi giorni anche del tuo compagno di squadra, Paolo Odogwu, che sarebbe stato contattato da Benetton. Hanno parlato anche con te?
“Lui è un mio amico, so che la Federazione aveva un interesse nei suoi confronti e voleva coinvolgerlo in Nazionale e so che nella sua testa c’era la possibilità di venire in Italia. Sicuramente per il Benetton e anche per la Nazionale sarebbe una bella occasione per portarsi a casa un giocatore come lui. Io direttamente non ho parlato con nessuno adesso, come detto sto lasciando fare ai miei agenti in questa fase”.
A proposito di Nazionale, come vedi questa serie di test match che sta per affrontare l’Italia?
“Saranno tre test cruciali. È innegabile che ci sia una partita da portare a casa assolutamente, contro Samoa: è un test difficile perché loro hanno vinto la Pacific Nations Cup (contro Fiji, Tonga e Australia “A”, ndr) e hanno molti giocatori che militano in Europa, e con le nuove regole che permettono agli ex nazionali di giocare per il proprio Paese di origine le isolane si sono molto rinforzate”.
E poi ci sarà l’Australia…
“Sarà una partita particolare, perché loro hanno un tour lunghissimo da 5 test, e l’Italia è proprio nel mezzo. Questo significa che comunque dovranno fare turnover, sarà un test sicuramente difficile e nel quale i Wallabies partono superfavoriti, ma l’Italia ha dimostrato di potersela giocare. Abbiamo vinto al Millenium quest’anno, e non so se loro potrebbero riuscirci adesso. I giocatori di qualità ci sono per provare a fare il risultato. Poi contro il Sudafrica sarà dura perché c’è sempre il solito punto di domanda: se non tieni fisicamente ti passano sopra, se tieni puoi provare a giocartela. Come ha dichiarato Innocenti un mese fa l’obiettivo delle due vittorie non è irreale, complicatissimo sì, ma non impossibile”.
Anche perché con i Wallabies dipende sempre da come si svegliano quel giorno…
“Esatto, secondo me si può fare. Sono diversi rispetto agli All Blacks, ad esempio, che quando sono favoriti riescono spesso a vincere anche se le cose si mettono male. Quando l’anno scorso li abbiamo incontrati a Roma li abbiamo sorpresi facendo una grande partita per 50 minuti, poi sono venuti fuori alla distanza perché sono gli All Blacks e alla fine vincono anche senza essere brillanti, come abbiamo visto quest’anno quando hanno portato a casa il Rugby Championship nonostante tutte le difficoltà”.
Il fantasma della sconfitta con la Georgia rischia di aumentare la tensione?
“Non sto qui a dirti che è stato un leggero inciampo, perché è stata una bella scivolata. Loro non aspettavano altro che quella partita, con tutta quella gente e con tutto il casino fatto dai loro tifosi, e sicuramente è un’ombra che almeno nella prima partita contro Samoa un po’ ci sarà, perché sei obbligato a riscattarti e a ricordare che non siamo quelli visti a Batumi. Quella sconfitta è una cosa non ci voleva, però non credo ci spaventerà, perché si tratta di giocatori super professionisti e abituati a gestire la pressione, quindi non comprometterà la preparazione del match, ma aver perso una partita così importante è chiaro che metta un po’ di pressione. Abbiamo vinto in Galles e abbiamo fatto la storia, vincendo una partita difficile, ma è ancora più difficile confermarsi”.
Ti manca la Nazionale?
“Mi manca tanto giocare quel tipo di partite, con gli stadi pieni e di fronte a grandi campioni: è il motivo per cui ancora adesso gioco a rugby, dopo tanti infortuni e tanti alti e bassi. Continuerò a lottare per guadagnarmi l’opportunità di giocare queste partite, ma chiaramente brucia quando succedono cose che non dipendono da te. Se avessi fatto delle stagioni sottotono a causa di un mio calo di prestazioni sarebbe stato diverso, ma sono successe tante cose che non potevo controllare, dagli infortuni fino al fallimento del club”.
Hai parlato con Crowley? Vi sentite spesso?
“Lui è venuto in Inghilterra in estate durante la pre-stagione, perché è molto amico del nostro preparatore Pete Atkinson, e parlando con lui ci sono stati dei feedback positivi su come stavo lavorando. Quando poi mi sono rifatto male è rimasto in contatto con lo staff medico dei Wasps e mi ha scritto più volte. È stato molto carino a farsi sentire, e anche se manco da un anno e mezzo mi ha fatto sentire ancora “nel radar” azzurro. Almeno sa che gioco ancora a rugby e sono ancora vivo (ride, ndr). Non so se sarei stato convocato, ma chiaramente per farlo sarebbe servita qualche prestazione in campo. Purtroppo la mia prima partita quest’anno è durata 6 minuti, e ora che stavo per rientrare il club è fallito”.
Com’è cambiata la concorrenza nel ruolo di estremo in questi anni?
“Di base, in Nazionale c’è sempre stata concorrenza. Quando ho esordito io c’erano Jayden Hayward – che credo abbia scritto un pezzetto di storia del Benetton e dal quale ho imparato tantissimo – e c’era Edoardo Padovani che stava facendo una delle sue migliori stagioni dopo quell’episodio a Tolone. C’era grande qualità ed ero il più piccolo. Oggi c’è ancora Edo, che è un grande giocatore, e c’è Ange Capuozzo che per me è stata una manna dal cielo per la Nazionale. Sta facendo bene anche quando è stato chiamato in causa a Tolosa, e in quei posti lì non fai bene se non sai cos’è il rugby per davvero. Sta meritando di indossare la maglia della Nazionale. Se un giorno avrò l’opportunità di ritornare in Nazionale, giocare insieme a lui sarebbe molto divertente: magari fisicamente non saremo giganteschi, ma secondo me insieme nel triangolo allargato possiamo divertirci.
Hai vissuto 4 anni in Inghilterra, e hai vissuto in prima persona l’implosione della Premiership inglese. Secondo te perché è successo?
“Onestamente, quando è successo mi sono chiesto la stessa cosa. Per me la Premiership è sempre stato ‘il’ campionato, come la Premier League del calcio. Pensare che in un mese Worcester e una società con 150 anni di storia come Wasps siano fallite così fa capire che qualcosa non va. E non sono le uniche due squadre che hanno problemi, guardando in giro ci sono tante altre squadre con debiti. Precisamente non so dirti perché è successo, però sicuramente la pandemia ci ha messo del suo, e poi la mia opinione è che la Premiership stesse perdendo appeal, diventando un campionato a 13 squadre e senza retrocessione. Certe partite diventavano un po’ un ‘chissenefrega, tanto anche se arrivo ultimo non succede niente’. È diverso rispetto alla Francia, dove invece vedi l’ultima in classifica che va a vincere in casa della prima perché deve fare punti per salvarsi. E poi secondo me c’è un problema alla base: la Championship, tolti gli Ealing e qualche altra squadra, è un campionato pressoché amatoriale abbandonato a se stesso”.
Forse la differenza principale rispetto alla Francia è proprio questa, pensando al Pro D2
“Nel Pro D2 ci gioca gente davvero forte, che è in Nazionale, è un campionato che va in diretta tv il giovedì sera e a vedere le finali ci sono 20mila persone. Qui il Championship penso sia seguito solo dalle compagne dei giocatori (ride, ndr). È una battuta, ma serve a far capire che non c’è un grande seguito, e in generale c’è un problema nella gestione dei giovani. Qui ai Wasps tanti giovani che non giocano perché dopo la pandemia è stato cancellato il campionato under 23, quindi tutto quel blocco di ragazzi che non rientra nella squadra senior cosa fa? Qualcuno ha la fortuna di andare in prestito qualche weekend, ma alla fine non crescono”.
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