Aver concluso senza vittorie un Torneo nel quale l’Italia non era mai stata così competitiva e costante fa male, ma non deve far dimenticare da dove si è partiti e dove questi ragazzi possono arrivare
Sull’attacco di Alessandro Garbisi, sull’ennesima carica di Manuel Zuliani, su quel pallone perso da Pettinelli, in tanti avevano sperato di fare l’impresa, di rompere quella che sembra ormai la maledizione della squadra bella e dannata, che gioca bene, diverte ma non vince. La sconfitta per 26-14 in casa della Scozia lascia l’amaro in bocca, la sensazione di essere sempre più vicini al traguardo ma di non raggiungerlo mai, ma questo Sei Nazioni non può e non deve essere visto all’insegna della negatività.
Questo non significa negare che ci si aspettava un risultato o più risultati diversi da queste 5 partite, né significa voler vedere il bicchiere mezzo pieno anche nelle cose che non hanno funzionato. Vuol dire semplicemente prendere atto di quanto il viaggio per arrivare al vertice del rugby mondiale sia lungo, forse anche più di quanto si potesse immaginare, e ricordare sempre da dove questi ragazzi sono partiti, dove sono arrivati e dove probabilmente arriveranno in futuro.
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Chiaro, i numeri parlano di 5 sconfitte su 5 partite, dell’ennesimo cucchiaio di legno e dell’ancora più bruciante whitewash, che spetta a chi perde tutte le partite. Numeri che a chi non segue il rugby e probabilmente non ha visto neanche un minuto di questa Nazionale faranno pensare al solito Sei Nazioni di sofferenza fatto di 5 sconfitte, mentre in realtà basterebbe anche un’occhiata superficiale al percorso di questi ragazzi per capire quanti progressi siano stati fatti in poco tempo. Fa male perché questo poteva essere l’anno in cui cambiare davvero le cose, divertendosi, facendo divertire e togliendosi tanti sassolini dalle scarpe.
Non è stato così, ma non solo per demeriti azzurri. Del resto, il livello del Sei Nazioni negli ultimi anni si è alzato in maniera spaventosa, e non è un caso che proprio le prime due classificate di questo Torneo – Francia e Irlanda – sono al vertice del rugby mondiale e si presenteranno alla Coppa del Mondo da favorite assolute. Competere a questo livello non è una cosa scontata, e sappiamo bene quanto sia difficile cambiare le gerarchie tecniche nel giro di poco tempo: eppure, in un anno e mezzo l’Italia di Kieran Crowley ha dimostrato di essere una squadra degna dei grandi palcoscenici internazionali.
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Quante volte, in questi anni, è capitato di vedere le potenze della palla ovale sfidarsi tra loro e pensare di essere un gradino sotto, di non poter sostenere quei ritmi di gioco che dalla tv sembravano assurdi. Ecco, l’Italia sta dimostrando di poter giocare quel tipo di partite e di poter sedere al tavolo dei grandi con assoluta dignità e consapevolezza dei propri mezzi: certo, manca ancora quel passo avanti che possa portare a vincere certe partite, ma non è il momento di rammaricarsi, né di fermarsi proprio adesso. L’Italia ha mandato un messaggio chiaro: “Noi ci siamo, e che nessuno pensi più di poter venire a Roma in gita”. Nelle altre 5 nazioni lo hanno capito giocatori, addetti ai lavori e pubblico.
Le cose da correggere e migliorare sono ancora tante, questo nessuno lo mette in dubbio: dalla capacità di gestire la pressione quando si parte coi favori del pronostico (vedasi la sfida col Galles, ma anche la famigerata serata di Batumi del 2022) al bisogno di allungare ulteriormente la profondità in alcuni ruoli chiave, visto che tanti giocatori sono arrivati al match di Edimburgo con l’indicatore della benzina in riserva. Cose di cui Kieran Crowley, capitan Lamaro, lo staff e i giocatori sono pienamente consci, ma mai si era vista un’Italia giocare 5 partite di fila al massimo livello in maniera così competitiva, ed è da qui che bisogna ricominciare.
Francesco Palma
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