In conferenza stampa, sui media, intorno agli eventi che caratterizzano il mondiale queste due prime settimane sono state improntate a dare visibilità alla competitività delle nazionali minori
“Tier 2 è solo un’etichetta. Sul campo non vale niente” dice Andrea Moretti, tecnico degli avanti azzurri, interpellato alla vigilia dell’ultima partita dell’Italia sulla possibilità di permettere all’Uruguay di competere più spesso contro squadre della cosiddetta prima fascia.
È il grande tema che caratterizza questa Rugby World Cup, almeno nelle prime due settimane. Ci sarà tempo, poi, per concentrarsi sulle fasi finali, previste appannaggio delle solite note. Ma questa prima tranche di partite è stata sottesa da un dibattito che fatica ancora ad arrivare sulle prime pagine dei principali media, eppure del quale si parla diffusamente, sottovoce ma con sempre maggiore insistenza.
È il classismo del rugby, la segregazione fra centro e periferia della palla ovale. Un centro che è un buco nero: attrae verso di sé ogni risorsa, avoca a sé un presunto diritto all’esclusività, si nutre della propria medesima eccellenza. La periferia, invece, sgomita per sedersi allo stesso tavolo, invocando equità, se non è permessa quantomeno la parità.
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A ogni media briefing prima delle partite, a ogni conferenza stampa dopo-gara, sulle pagine dei media, sui social network e negli ambienti del mondiale non si parla d’altro: è il momento di dare la possibilità a quello che oggi è il secondo mondo rugbistico di competere il più spesso possibile con il primo, per far crescere il gioco, renderlo più bello, ampio, variegato e di tutti.
Pablo Lemoine, CT del Cile, ha sbottato così dopo il 71-0 subito dai Condores contro l’Inghilterra: “Sono anni che lo dico e sono anni che chiediamo la stessa cosa: poter fare esperienza prima di giocare un mondiale. Mi repelle tornare a parlarne. Alla fine è come uno spettacolo dove da un lato stiamo noi nel ruolo dei pagliacci e dall’altro i proprietari del circo. Personalmente non ne posso più.”
“I giocatori danno quello che possono, tutte le energie che hanno le mettono qui. Fa parte del gioco, far sì che lo spettacolo funzioni. Però è molto ingiusto perché si trovano in situazioni dove non conoscono la rapidità degli attacchi, le capacità della altre squadre. Così rimaniamo in mezzo al guado, cercando di assomigliare a qualcosa che non possiamo essere.”
Ma non è solo lo sfogo di un allenatore sconfitto. Seilala Mapusua ne ha parlato dopo Argentina-Samoa, sottolineando che nel ciclo mondiale precedente alla gara la sua squadra ha giocato solo 3 partite contro avversarie di prima fascia. Esteban Menezes e lo staff uruguaiano ne hanno parlato a più riprese dall’inizio del mondiale. La stampa latinoamericana ne ha chiesto conto ad un reticente Raphael Ibanez, team manager della Francia. Anche l’Italia è intervenuta nel merito.
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Lo ha sottolineato lo stesso Michele Lamaro dopo la partita con i Teros, non nascondendo una certa propensione personale ad allargare il cerchio: “Il rugby è fatto di queste gare. È stata una bellissima partita da giocare.” Kieran Crowley, premettendo la complessità degli interessi economici in ballo, si è espresso favorevolmente alla concessione di maggiori opportunità di competizione ad alto livello per le squadre minori, così come lo aveva fatto più volte uno dei suoi predecessori, Conor O’Shea.
A partire dall’Uruguay, capace di spaventare la Francia e l’Italia, per passare al Portogallo, al Cile, alla Georgia, alle Samoa, senza dimenticare che pure le Fiji sono considerate squadre di seconda fascia, tutti i movimenti cosiddetti minori hanno dimostrato una competitività anche superiore a quella loro attribuita sulla carta alla vigilia del mondiale.
Dovrebbe essere una buona notizia per uno sport che rischia la cricketizzazione, ovvero una bolla competitiva all’interno della quale riescono a stare appena sette-otto squadre nazionali al mondo. E invece l’establishment del rugby va verso la segregazione: la Nations League che diventerà molto probabilmente realtà dopo il mondiale e che dovrebbe vedere la luce nel 2026 farà sì che, invece di aprirsi ad una competizione sempre più ampia e variegata, il rugby rimanga un affare chiuso a 12 squadre. Le sei del Sei Nazioni, le quattro del Rugby Championship, Giappone e Fiji. Queste squadre destinate a giocare tra loro per quattro anni consecutivi, senza nessuna possibilità per chi rimane fuori.
Per quanto possano essere reali le necessità economiche delle grandi federazioni, che hanno bisogno di sostanziosi incassi al botteghino e dai diritti TV, rimane evidente che la ricerca dell’immediato profitto non possa che essere deleteria per le rendite future.
Prendiamo quella che, dopo il 96-0 subito dalla Francia, sembra essere la squadra meno competitiva del mondiale, la Namibia. Dalla Rugby World Cup del 2019 a quella del 2023 la nazionale africana, complice la pandemia, ha potuto disputare in tutto 7 test match internazionali. Le avversarie: Kenya, Burkina Faso, Zimbabwe, Spagna, Canada, Uruguay e Cile, con le ultime due sfidate appena un mese fa per preparare il mondiale. Non un grande aiuto per sviluppare la propria competitività, e se il processo di qualificazione non cambia e la Namibia non verrà maggiormente coinvolta con test di livello superiore nei prossimi quattro anni, nel 2027 in Australia sarà la medesima, identica storia.
Di più: togliere a una squadra come la Georgia l’opportunità di sfidare le squadre di prima fascia difficilmente la porterà vicino a ripetere le grandi vittorie con Italia e Galles. Samoa e Tonga non usciranno dalla mediocrità malgrado la linfa data loro dalla modifica delle regole sull’eleggibilità se potranno continuare a giocare solo tra loro ad eccezion fatta dei mondiali.
Rodrigo Fernandez, Manuel Ardao, Jeronimo Portela. Tutti nomi che sono pronti a rientrare nel dimenticatoio dal quale sono usciti per stupirci, scoprendo che anche fuori dal cerchio magico dei soliti noti c’è talento, abilità, passione, competenza e storie da raccontare.
È una questione elementare quanto sicuramente complessa da sbrogliare: a quanto pare ci sono molte federazioni che non possono permettersi a livello economico di rinunciare neanche ad un sold out del proprio stadio, neanche ad una vendita al massimo prezzo dei diritti TV per rimanere in piedi. Segno evidente di un modello di business che non funziona.
Al di là di questo, però, il rugby si merita qualcosa di più. Di essere più equo nelle opportunità concesse, di espandere i propri confini per avere domani un gioco che sia, finalmente, davvero globale.
Lorenzo Calamai
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