Combattere non è bastato per evitare una seconda bruciante sconfitta. Il bilancio del mondiale azzurro
La Rugby World Cup 2023 dell’Italia è finita quando era previsto che finisse, al termine della fase a gironi. Il risultato quello atteso: terzo posto nel girone con due vittorie con bonus contro Uruguay e Namibia, qualificazione automatica al mondiale australiano tra quattro anni.
È la storia di una Coppa del Mondo azzurra vissuta sulle montagne russe, intrecciata con quella di una squadra costruita in due anni, rivoltata come un calzino dallo staff azzurro in 26 mesi. Incomincia al termine della pandemia, quando Marzio Innocenti e il consiglio federale affidano a Kieran Crowley la panchina dell’Italrugby. Passa per la prima vittoria al Sei Nazioni contro il Galles, per la prima storica sconfitta contro la Georgia, per la prima vittoria di sempre contro l’Australia. È in dirittura d’arrivo quando gli Azzurri battono Namibia e Uruguay non senza qualche magagna, ma infine facendo valere la loro maggior cilindrata. Si è chiusa venerdì 6 ottobre con la peggior sconfitta di sempre nei confronti della Francia, una settimana dopo aver concesso quasi cento punti alla Nuova Zelanda.
Una batosta è una batosta è una batosta, scriverebbe Gertrude Stein. E in effetti sono archetipiche, rappresentano l’essenza stessa di ciò che è una batosta le due pesanti sconfitte patite dall’Italia. Eppure, sono molto diverse tra loro.
Gli Azzurri sono usciti di partita prima di tutto caratterialmente nella gara di fronte agli All Blacks. Avevano creduto di poter competere davvero contro la miglior Nuova Zelanda possibile, e quando si sono trovati sotto di 20 punti, soverchiati dalla potenza avversaria, hanno ceduto prima di tutto nella fortezza mentale e si sono sciolti, accusando un passivo pesante ma soprattutto offrendo una prestazione difficile da comprendere, accettare.
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Contro la Francia era pertanto attesa una reazione, e in qualche modo c’è stata: gli Azzurri ci hanno fisicamente messo la faccia, le spalle, le ossa. Hanno messo in campo la maggiore durezza negli impatti di cui sono capaci, non si sono sottratti allo scontro. Ma non è bastato, non può bastare: è mancato il controllo della prestazione, è mancata la capacità di salire di livello e, alla fine, hanno patito non solo il maggior livello complessivo di talento degli avversari, ma anche la loro maggiore stazza, potenza, forza. Ancora una volta gli Azzurri sono stati traditi da delle fasi statiche approssimative: la rimessa laterale ha sofferto molto all’inizio, poi ha ceduto anche la mischia ordinata (dove si poteva, a dire il vero, attendere un predominio francese dati i forzati aggiustamenti per gli infortuni da parte italiana). Ancora una volta ci sono stati grossi problemi al breakdown, ed è questo l’aspetto tecnico più deludente: una carenza che l’Italia non è mai riuscita a sanare con continuità, un problema che si è presentato a più riprese negli ultimi due anni e che infine è esploso in tre partite consecutive contro Uruguay, All Blacks e Francia senza che si sia potuto mostrare un minimo miglioramento.
Il sospetto è che queste due sconfitte possano fare più male per la credibilità del rugby italiano verso l’esterno del mondo ovale, piuttosto che all’interno di esso. Uno sport che ha ancora bisogno di farsi conoscere, di appassionare, di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone non può attrarre nessun potenziale adepto subendo un punto al minuto, com’è pressoché accaduto nelle ultime due gare: 156 punti subiti in 160 minuti.
Eppure, a ben guardare, il tema della credibilità ha una doppia faccia. Lo hanno sottolineato in maniera lucida Michele Lamaro e Sebastian Negri dopo la gara contro la Francia, uno in conferenza stampa e l’altro in zona mista. La storia incominciata due anni fa con Kieran Crowley aveva un obiettivo che era stato scritto nero su bianco, anzi in bianco su sfondo azzurro nello spogliatoio dello Stadio Olimpico di Roma: restituire credibilità e rispetto al rugby italiano.
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Un po’ per forza, un po’ per merito gli Azzurri hanno realizzato il loro scopo. Oltre al percorso ricordato, l’Italia di Crowley chiude il suo ciclo con la miglior percentuale di vittorie dai tempi di Pierre Berbizier e con la miglior media di mete per partita dal 2000 a oggi, solo per citare due statistiche di rilievo. Nuova Zelanda e Francia hanno rivolto, dunque, credibilità e rispetto alla minaccia italiana in due partite da dentro o fuori per entrambe, due sostanziali ottavi di finale. Hanno giocato per la loro sopravvivenza in questa Rugby World Cup schierando la formazione migliore, preparando la gara in ogni minimo dettaglio, studiando l’avversario come forse non avevano mai fatto. Neanche i transalpini che ci affrontano ogni anno.
Questa è la fotografia della realtà: due delle migliori squadre al mondo hanno giocato due partite enormi, offerto due prestazioni del più alto livello possibile con i loro migliori giocatori a disposizione e con la necessità di batterci. Non siamo riusciti a stare a quel livello, perché tra l’undicesima squadra del mondo e la seconda c’è un vero abisso quando si tratta di do or die. D’altra parte, Irlanda-Scozia ha confermato che fra le prime quattro squadre al mondo e le altre c’è una bella differenza: nell’ultima gara del girone B il XV del Cardo ha subito 6 mete prima di poter dire la propria in un finale di gara in cui l’Irlanda ha evidentemente rallentato e operato molto presto tutti i cambi. E stiamo parlando della quinta squadra al mondo, ben al di sopra del livello degli Azzurri.
Ecco che appare evidente, allora, il compito che erediterà Gonzalo Quesada e la lezione che si portano a casa i 35 giocatori coinvolti dall’Italia in questa Rugby World Cup: abbiamo ottenuto sul campo di giocare al massimo livello possibile, ci siamo scottati col fuoco nel farlo, dobbiamo farci trovare pronti e cresciuti alla prossima occasione perché non accada di nuovo. I mezzi per raggiungere questo nuovo fine ci sono.
Lorenzo Calamai
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