La filosofia, le idee tecniche e i propositi di allargamento dello staff del nuovo capo allenatore dell’Italia
Il primo giorno di Gonzalo Quesada in Italia è lungo. Servizi fotografici, presentazione nel Salone d’Onore del Coni, conferenza stampa, riunione con i quadri federali.
Un programma intenso, fatto soprattutto di dichiarazioni e relazioni che il nuovo capo allenatore della nazionale ha voluto affrontare per la stragrande maggioranza in italiano, quarta lingua dopo lo spagnolo, il francese e l’inglese che ha voluto imparare a parlare il più rapidamente possibile per essere pronto a calarsi nella realtà del suo nuovo lavoro.
Il 49enne ex mediano di apertura, miglior marcatore alla Rugby World Cup 1999, sarà il primo allenatore argentino ad allenare una squadra europea insieme a Pablo Bouza, suo ex compagno di nazionale, che sarà il prossimo head coach della Spagna.
Due sfide molto diverse: la nazionale iberica vuole replicare il successo del modello uruguaiano per qualificarsi alla prossima Rugby World Cup, quella azzurra continuare il proprio percorso di crescita per accrescere la propria possibilità di rivaleggiare con le migliori del rugby internazionale.
Un obiettivo che Gonzalo Quesada accoglie con entusiasmo e con le idee chiare: “Oggi un capo allenatore professionista è prima di tutto un manager che si occupa di gestire persone. Per me è importante creare un ambiente fiorente, dove ciascuno sia in grado di realizzarsi. Un ambiente di sviluppo e di crescita per tutti. Un ambiente di lavoro positivo.”
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Qual è la tua filosofia come allenatore?
Ho un quadro molto chiaro del mio metodo di lavoro, dei miei valori e della mia visione, ma all’interno di questo faccio di tutto affinché ognuno abbia la propria libertà di prendere l’iniziativa. Questo mi consente di responsabilizzare tutti, staff e giocatori.
Per me è impossibile parlare di un progetto di gioco o di un piano di gioco prima di parlare di un progetto di squadra, definito da tutti. Ovviamente come capo allenatore voglio mostrare una direzione, ma dobbiamo decidere insieme chi siamo, chi vogliamo essere, quali sono i nostri obiettivi di performance, il nostro scopo, i nostri valori.
Questa è la mia filosofia. Primo: un progetto di squadra. Poi: un progetto di gioco, in relazione al precedente.
Ci sono dei principi chiave che pensi di portare in questa nuova sfida?
Certo, ho le mie convinzioni. Penso che non possiamo giocare contro le prime 10 squadre al mondo senza una squadra molto forte nelle basi del gioco. Per basi del gioco intendo la conquista, la difesa, la disciplina, le exit strategies.
Credo che la filosofia di attacco degli Azzurri vada mantenuta. Oggi l’Italia è riconosciuta come una squadra che può giocare a rugby, che può tenere il pallone, può essere pericolosa con l’ovale tra le mani. Possiamo forse migliorare ancora qualcosa in termini di atteggiamento nel contatto, combattere di più per restare in piedi.
Tuttavia, il processo rimane quello che ho descritto: definire un’identità e un progetto di squadra per prima cosa, poi consolidare le nostre basi per avere una conquista solida, una difesa capace di mettere grande pressione, delle exits più pragmatiche con diverse opzioni tra utilizzo del pallone o gioco al piede e molta chiarezza in rapporto alle scelte da prendere nelle diverse zone di campo. Solo dopo possiamo parlare dell’attacco e continuare a sviluppare un rugby dinamico, di velocità e pericoloso. capace di fare male a qualsiasi avversario.
Ad ora, senza aver ancora parlato con i giocatori, mi sembra che siano convinti di questo tipo di rugby. L’Italia d’altra parte non ha un profilo di squadra per giocare un rugby senza possesso e di gioco al piede come fanno il Sudafrica o l’Inghilterra. Noi dobbiamo difendere e mantenere il nostro sistema d’attacco con le sue molte opzioni offensive, moderno, veloce, difficile da difendere e che mette continuamente sotto pressione la difesa. Ma solo con questo non riusciremo a battere le 10 migliori squadre al mondo, sarà lo sviluppo delle basi del nostro gioco che ci potrà portare a vincere sui nostri avversari su base regolare.
A volte da spettatori abbiamo l’impressione che alla nostra nazionale semplicemente manchi qualcosa a livello strutturale, che ci siano delle lacune nella formazione e nello sviluppo dei giocatori che non permettono loro di stare al livello degli avversari.
Ho già parlato un po’ con Marco [Bortolami] e Fabio [Roselli], ho parlato con i quadri della Federazione, ma questi sono soltanto i miei primi giorni in Italia e sono convinto di dover lavorare con tutti, non solo le franchigie e la nazionale maggiore ma anche la nazionale U20 e quella U18, i clubs. Ho visto molte partite del Benetton, delle Zebre e della Serie A Elite.
Non credo ci siano delle mancanze di fondo o che ci siano problemi nei nostri club. Per migliorare e rendere più competitiva la nostra nazionale penso che il primo passo sia avere una strategia più chiara in campo. Ovviamente non c’è il tempo per cambiare tutto tra adesso e il Sei Nazioni, ma penso che possiamo lavorare per migliorare diversi dettagli, dalla conquista al punto d’incontro, e sulle scelte prese dai leaders in campo in base al contesto.
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Quando nel 2019 sei riuscito a portare i Jaguares in semifinale di Super Rugby il direttore della formazione della federazione argentina era German Fernandez, che oggi ricopre lo stesso ruolo nella federazione italiana. Ha inciso la sua presenza qui nella tua scelta?
A essere totalmente onesto non ha inciso molto. Ovviamente la sua presenza è importante e so che German sta facendo un lavoro molto buono, apprezzato da tutti.
Quando ho incominciato a parlare con la FIR non ho potuto parlare con lui né con altri amici che sono in Italia perché erano ancora contatti confidenziali, ma quando poi le cose sono diventate più concrete l’ho chiamato per avere la sua opinione sulla possibilità di accettare il lavoro, visto che dall’esterno è difficile capire tutto e lui poteva aiutarmi con una visione dall’interno.
German è stato importante perché mi ha detto che non tutto è perfetto, come d’altra parte non è mai tutto perfetto da nessuna parte, ma mi ha dato le risposte di cui avevo bisogno sulla qualità delle persone nell’ambiente italiano.
Ho deciso di accettare la sfida, anche se per me è la prima volta in cui arrivo in un ambiente da solo, inserendomi in uno staff già presente. Credo sia una buona idea di transizione e continuità, sono sicuro che con lo staff attuale e due/tre nuovi membri potremo continuare a crescere insieme.
Ancora una domanda che rimanda al 2019. In un’intervista a OnRugby di quell’anno l’allora head coach della nazionale italiana Conor O’Shea si disse sicuro che l’Italia poteva emulare il movimento argentino. È una similitudine che ti torna o era solo retorica?
Quando ho iniziato a pensare a questa opportunità ho visto molte similitudini tra l’Italia e il mio percorso con i Jaguares. Un gruppo di giovani talenti che non avevano ancora vinto molto nel Super Rugby, ma che aveva una grande fame. E qui ritrovo un po’ la stessa cosa: un gruppo di giocatori giovani che parla la stessa lingua, inteso come sentire comune, stesso modo di pensare, stessa cultura, e che ha voglia di ottenere qualcosa.
Penso che se arriviamo con un’idea precisa di quale rugby vogliamo giocare e mostriamo ai giocatori le ragioni del perché vogliamo giocare proprio quel rugby, perché vogliamo allenarci in un certo modo, comportarci in un certo modo, avere certi valori, sono sicuro che questo gruppo di giocatori sarà pronto a continuare a crescere e raggiungere il prossimo step nel suo percorso di sviluppo.
Quando sono arrivato ai Jaguares è stato così. Ho trovato un gruppo di giocatori che guardava verso i tecnici dicendo loro: siamo pronti, che cosa dobbiamo fare, qual è il percorso. E abbiamo dovuto solamente presentare loro l’intero quadro, non solo quale tipo di rugby avremmo giocato, ma anche che tipo di squadra dovevamo essere per poter giocare e vincere in Australia, in Sudafrica, in Nuova Zelanda con una rosa di giocatori argentini. È stata una sfida enorme, ma quando i giocatori hanno accettato e partecipato al modo in cui dovevamo comportarci, alla cultura del lavoro, all’identità, al modo di lavorare, allenarci e giocare, abbiamo iniziato a vincere con continuità.
Tutte queste cose mi hanno fatto pensare a quello che mi attende adesso, come capo allenatore dell’Italia. E voglio sottolineare che non sono qui per spiegare cosa dobbiamo fare o quale deve essere la cultura della squadra. Sono qui per ascoltare, capire e imparare e poi portare le mie idee, costruite insieme a chi è qui, basate sulla cultura e sull’identità italiane. Non sono solo qui per stimolare, ispirare gli altri, ma spero di esserlo a mia volta dalle persone con cui lavorerò. Spero che possiamo essere d’ispirazione gli uni per gli altri.
Lorenzo Calamai
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