Al termine dell’ottimo Sei Nazioni ha parlato il direttore tecnico della Federugby, tra progressi fatti e aspetti da migliorare
Al termine del Sei Nazioni 2024, il migliore di sempre per l’Italia in termini di risultati ottenuti sul campo, una domanda sorge spontanea: come mai, dopo aver ottenuto una sola vittoria nelle sette edizioni precedenti, finalmente gli Azzurri sono riusciti ad essere così competitivi?
È stato merito dell’arrivo dall’Argentina (e dalla Francia) di Gonzalo Quesada, capace di aver portato equilibrio al gioco dell’Italia e tanta fiducia nelle qualità del gruppo? Oppure ha influito di più il lavoro del suo predecessore Kieran Crowley, che aveva raccolto un gruppo di giovani di belle speranze ma senza certezze, dandogli un gioco e una struttura? Ma non era stato forse Franco Smith ad aver avuto il coraggio di far debuttare tanti dei giovanissimi che adesso sono il nerbo dell’Italia? E come dimenticare il lavoro dei tanti assistenti tecnici che si sono succeduti ognuno in una specifica area di gioco?
Leggi anche: Un Sei Nazioni strepitoso di un’Italia cambiata nella testa: maturità, gioco e finalmente risultati
Sono domande a cui è difficile rispondere, come ammette in queste ore lo stesso direttore tecnico della Federugby Daniele Pacini in un’intervista al Corriere dello Sport: “Il concetto di transizione negli sport di squadra è assai complesso”, e ha parlato di un sistema che è sempre in cerca di equilibrio, tra formazione dei giocatori, la loro gestione e i cambiamenti che ruotano intorno a loro.
Italia, Daniele Pacini: “Sarebbe perfetto se ogni producessimo 30 azzurrini”
“Se ragioniamo solo sulla Nazionale – ha proseguito Pacini – vedremo per esempio che i miglioramenti nel gioco al piede sono venuti da Philippe Doussy (skills coach dell’Italia, ndr) o che le ragioni dell’altissima tenuta fisica fino all’80’ dell’ultima giornata sia frutto della preparazione totalmente rivoluzionata da Michele Colosio (preparatore atletico della Nazionale, ndr)”.
“Siamo più vicini a quella che Gonzalo Quesada chiama spesso ‘identità italiana’. Quindi dei contorni ben definiti, partendo dall’atteggiamento sfidante ereditato da Kieran Crowley e dal nucleo dei classe 1998 e altri giovani portato alla ribalta da Franco Smith”.
In equilibrio tra formazione e scouting, ecco che si è costruito l’attuale gruppo tricolore: un gruppo particolarmente unito, come hanno più volte dichiarato gli stessi Azzurri. Ovviamente non si tratta di un processo facile da mettere in piedi e replicare: “Se riuscissimo a produrre ogni volta trenta azzurrini perfetti per le due franchigie di URC saremmo materia di studio nelle università. La transizione, negli sport pro’ americani, porta a una scrematura da 10.000 a 100”, spiega Pacini.
E a questo si aggiungono anche altre interferenze, dal richiamo dei club francesi (“Che per come è strutturato il loro sistema cercano di catturare dalle nazioni vicine”) al divario che c’è tra massimo campionato italiano, la Serie A Elite, e lo URC dove militano Benetton Rugby e Zebre Parma. Eppure Pacini resta positivo, anche se spesso spuntano polemiche tra club e Fir: “In realtà a livello tecnico c’è grande intesa, da sempre. Talvolta i contrasti riguardano la fase pre-stagionale di alcuni giocatori, con le squadre che vorrebbero gestire per conto loro, mentre noi consigliamo gli allenamenti con le franchigie”.
Cari Lettori,
OnRugby, da oltre 10 anni, Vi offre gratuitamente un’informazione puntuale e quotidiana sul mondo della palla ovale. Il nostro lavoro ha un costo che viene ripagato dalla pubblicità, in particolare quella personalizzata.
Quando Vi viene proposta l’informativa sul rilascio di cookie o tecnologie simili, Vi chiediamo di sostenerci dando il Vostro consenso.