Il mediano di mischia appende gli scarpini al chiodo: “La cucina è la mia seconda passione, vorrei fare anche lo chef a domicilio. Gli Azzurri rispetto ai tour estivi del passato hanno molta più profondità, questo sarà fondamentale”
Edoardo “Ugo” Gori chiude la sua carriera rugbistica a 34 anni: lo fa in Francia, con la maglia di Colomiers, dove ha trascorso gli ultimi anni di una carriera lunga (69 caps con l’Italia) e piena di soddisfazioni. Il dispiacere dopo la sua “The last dance” c’è, ma Gori non ha rimpianti, sa che il momento era arrivato: “Sapevo da tanti anni che questo sarebbe stato il mio ultimo contratto. Avevo firmato l’ultimo triennale con Colomiers sapendo che dopo avrei smesso: ho un po’ di problemi a una spalla, e anche le ginocchia sono un po’ malandate, sono abbastanza stanco fisicamente ed è arrivato il momento di smettere e pensare ad altre cose” ha raccontato a OnRugby.
Cosa farai dopo il ritiro?
“Mi piacerebbe aprire una gelateria qui in Francia. Ho fatto un corso di cucina simile al nostro Alberghiero e poi un master in Economia, è un’idea a cui pensavo da anni e adesso si è creata un’opportunità. È uno dei sogni che avevo da piccolo, spero di riuscire a realizzarlo”.
Anche sul web sei molto attivo in cucina…
“Sì, è la mia seconda passione dopo il rugby. Mio padre è sempre stato appassionato, a casa mia il cibo è un momento di condivisione, e qui in Francia ho deciso di frequentare un corso di cucina francese per avere delle basi importanti da unire poi alla cucina italiana, che qui sta spopolando, stanno aprendo tantissimi ristoranti e pizzerie italiane. Alla fine la cucina italiana è la migliore al mondo, c’è poco da fare. Mi piace molto cucinare e mi piacerebbe un giorno fare anche lo chef a domicilio, per ora faccio un po’ di video sui social, poi in futuro si vedrà, per adesso mi dedicherò alla gelateria”.
Ci sarà ancora spazio per il rugby?
“Per il momento vorrei staccare, è da quando sono entrato in Accademia a 17 anni che penso solo alla palla ovale. Mi piacerebbe allenare i ragazzini, dedicarmi al rugby di base, ma puramente per passione. Per il resto mi piacerebbe staccare”.
Hai avuto una lunga carriera, sia a livello di club che di Nazionale. Quali sono i momenti più belli che ti porti dentro?
“Sono tantissimi, difficile scegliere. Partirei dall’esordio in Nazionale, sia con l’Under 20 che con la maggiore a Firenze. Vincere contro il Sudafrica poi è stato incredibile. Ma anche la prima vittoria con Colomiers è stata molto emozionante per me: venivo da un periodo in cui non giocavo mai, qui ho ritrovato confidenza e fiducia ed è stato un periodo molto bello della mia carriera. E poi c’è Edimburgo, nel 2015 con la Scozia, chi se la scorda. Ma anche tante vittorie a Treviso, soprattutto a Monigo. I ricordi sono davvero tanti”.
A proposito di Monigo. Stai seguendo il Benetton? Quanto è importante quello stadio e il tifo di Treviso?
“È importantissimo. Lo stadio è casa tua, se sei un giocatore, è dove cresci e dove ci sono le persone con cui condividi gran parte della giornata. E i tifosi sono fondamentali. Il pubblico di Treviso è sempre stato disponibile e vicino alla squadra. Il Benetton quest’anno sta facendo una stagione incredibile, li sto seguendo da lontano ma questa squadra è davvero molto performante. Sono riusciti a creare un’alchimia di squadra e una qualità di gioco di alto livello e possono togliersi ancora tante soddisfazioni. Peccato solo per la semifinale di Coppa contro Gloucester, l’ho vista dalla Francia e mi è dispiaciuto tantissimo: forse i ragazzi non sono ancora abituati a vivere quel tipo di pressione che ti dà una semifinale, però è davvero una bella squadra. Ci sono tanti ragazzi che potrebbero giocare ovunque in Europa”.
Hai parlato dei momenti più belli. Quali sono invece i rimpianti?
“Non ne ho molti in realtà. Ho sempre fatto il massimo, e quando ti rendi conto di non poter arrivare a certe cose devi accettare i tuoi limiti. Forse ne ho uno: a 19 anni mi feci male alla spalla, poi giocando a calcio-tennis col fisioterapista sono scivolato e mi sono infortunato anche al ginocchio, che poi mi ha condizionato la carriera: avrei dovuto essere più professionale in quell’occasione. Poi forse mi sarebbe piaciuto andare prima all’estero, magari fare qualche anno in Inghilterra. Quando sono arrivato in Francia mi sono chiesto spesso ‘perché non ci sono venuto prima?’, però a Treviso sono stato benissimo e proprio questo mi ha condizionato e non mi ha fatto partire prima”.
Non ti dispiace aver mancato la promozione in Top 14? Colomiers ci è sempre andato vicino ma ha ha mancato l’ultimo passo…
“Sì, sarebbe stato molto bello. L’anno della pandemia eravamo primi in classifica a febbraio, quando hanno interrotto il campionato e congelato le promozioni, forse avremmo potuto farcela. Però siamo una società piccola e forse in Top 14 non avremmo retto a livello di budget, sarebbe stato molto difficile e probabilmente avremmo avuto un anno di sofferenza e sconfitte. In Pro D2 invece siamo sempre competitivi, meglio così che essere ultimi in Top 14. Alla fine va bene così. Chiaramente mi sarebbe piaciuto fare un anno in un campionato così importante, ma forse non ne ho avuto la capacità, alla fine non tutti possono farlo”.
A proposito di grandi stagioni, non possiamo non citare il Sei Nazioni di quest’anno…
“Mamma mia, incredibile. Peccato per la partita contro la Francia, avrebbe coronato un Torneo stupendo. Questa Italia gioca bene, ma in realtà lo fa già da un po’ di anni anche se prima non era riuscita a togliersi le soddisfazioni che meritava. So quanto sia difficile, ci siamo passati anche noi quando eravamo più giovani: soffri tutte le partite, ti insultano, e alla fine riesci a portare a casa un risultato storico. Peccato essere arrivati solo quinti con 2 vittorie e un pareggio, meritavamo di più, ma alla fine è stato un Sei Nazioni davvero tirato. Speriamo di continuare su questa strada, sarebbe importante per tutto il movimento”.
Adesso ci sono tre sfide insidiose: Samoa, Tonga e Giappone. L’Italia, storicamente, soffre molto i tour estivi. Lo abbiamo visto nel 2022 ma anche nel 2017, quando eri presente, e ci fu quel mezzo disastro con Scozia, Fiji e Australia. Come mai gli Azzurri fanno così fatica?
“È un tour molto difficile perché si arriva alla fine di una stagione molto lunga. Magari da tifosi non ci si rende conto della difficoltà di una stagione di rugby: le botte, gli allenamenti, la pressione di tutti i weekend. Arrivi al tour estivo che sei davvero cotto, magari non hai una grande profondità e affronti squadre che invece iniziano la stagione, e poi si aggiungono anche i viaggi lunghissimi e le partite contro squadre che attraversano periodi di grande forma”.
Secondo te l’Italia può rompere questo tabù?
“Credo di sì perché rispetto a quando giocavo io in Nazionale c’è molta più competitività e profondità, e come dicevo prima questo può fare la differenza. Se giocano sempre gli stessi la fatica aumenta, perché magari ti trovi a schierare un ragazzo che ha già fatto 25 partite in un anno ed è stanco. I ragazzi giovani che hanno giocato meno, che mettono un po’ di pepe al c**o dei vecchi (ride, ndr) possono dare una mano perché aumentano la profondità e soprattutto la qualità: non importa chi gioca, il livello è praticamente lo stesso, e questo è importante. Poi ogni ragazzo giovane ha fame e voglia di conquistarsi il posto e spinge il titolare a fare meglio”.
Gli Azzurri possono contare al momento su 4 mediani di mischia molto diversi tra loro. Ci fai un po’ una disamina a livello tecnico su cosa può dare ognuno di loro? Quale ti piace di più?
“Sì, sono 4 ragazzi importanti che pur essendo diversi possono dare qualità alla squadra e sono tutti importanti. Varney magari è un po’ più tecnico, e giocando in Inghilterra conosce di più il gioco strategico angolassone e può aiutare la squadra in momenti difficili. Di Alessandro Garbisi mi piace molto la capacità di attaccare vicino agli spazi col pallone in mano, così come Fusco che è ancora più imprevedibile e anche a livello fisico credo abbia una marcia in più rispetto agli altri, è molto rapido, dinamico, sa attaccare la linea. Forse è quello più vicino a me come caratteristiche. Page-Relo lo conosco perché l’ho affrontato quando giocava a Carcassonne: è un giocatore tecnicamente molto forte e veloce, ha un ottimo piede e sa piazzare, inoltre essendo di scuola francese ha una visione di gioco differente dagli altri. Alla fine ognuno di loro porta qualcosa di diverso, e a seconda della partita e del momento puoi contare su tutti loro e scegliere quello più adatto. Ho un occhio di riguardo per Garbisi e Fusco perché essendo di formazione italiana li ho visti crescere fin da piccoli, ma sono tutti ottimi giocatori”.
E di Quesada cosa ne pensi?
“Mi piace molto, qui in Francia si è sempre parlato molto bene di lui, in ogni squadra che ha allenato. Sicuramente i risultati sono stati importanti, ma bisogna sempre ricordare che sono figli del lavoro incredibile fatto da Kieran (Crowley) sia con l’Italia che a Treviso, a volte questo lavoro non viene riconosciuto come dovrebbe. Alla fine il gioco dell’Italia nasce dall’idea che aveva portato Crowley. Sicuramente Quesada ha portato una confidenza che prima non c’era, poi è latino e questo aiuta molto noi italiani a rapportarci con lui, e lui ha grande qualità umane”.
Francesco Palma
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