A Torino la prestazione degli Azzurri è stata al contempo eccellente e insufficiente
Tipo niente male quell’Erwin Schrödinger.
Ha vinto un premio Nobel per la fisica grazie alla sua equazione fondamentale per lo sviluppo della meccanica quantistica, gli hanno intitolato un asteroide e un cratere lunare, ha dato la definizione di che cosa sia la vita da un punto di vista fisico.
Tutti si ricordano della questione del gatto, più o meno. Un paradosso da lui immaginato, una sorta di quegli scherzi da scienziati che li fanno ridere soltanto tra loro, e che infatti serviva a mostrare alcune problematiche inerenti alle interpretazioni della meccanica quantistica.
Funziona così: si rinchiude un gatto in una scatola d’acciaio e dentro la scatola si inserisce un meccanismo tale che se viene azionato comporterà la morte del gatto. Ora, questo meccanismo ha la stessa esatta probabilità di azionarsi e non azionarsi nel giro di un’ora. Finché non si osserva ciò che è accaduto all’interno del sistema (la scatola d’acciaio), lo stato del medesimo rimane sovrapposto in una condizione di evento avvenuto/non avvenuto. E quindi anche il gatto è in una condizione di sovrapposizione: è al tempo stesso morto e vivo.
Ora trasliamo il paradosso in chiave rugbistica: si rinchiuda l’Italia del rugby in una scatola d’acciaio altrimenti nota come Juventus Stadium insieme al seguente meccanismo infernale: gli All Blacks. Dopo un’ora e venti il risultato è di 29-11, ma permane una condizione di sovrapposizione: l’Italia ha al tempo stesso offerto una prestazione eccezionale e insufficiente.
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Tarpare le ali agli All Blacks
Sabato sera allo Juventus Stadium l’Italia ha offerto una delle sue migliori prove difensive di sempre.
Non è un dato supportato dalle statistiche più basilari: 152 placcaggi sono tanti, ma una quantità piuttosto normale per la squadra con meno possesso all’interno di una partita. Nelle partite del Sei Nazioni l’Italia ha spesso dovuti farne di più (202 con l’Irlanda, 214 con la Scozia, 216 con il Galles).
Tuttavia la capacità con cui l’Italia ha resistito all’offensiva neozelandese, respingendola a più riprese, recuperando il pallone e liberando il proprio campo è stata superiore a tutte le precedenti partite tra Azzurri e All Blacks di recente memoria.
Quello che gli Azzurri hanno mostrato nell’ultimo turno delle Autumn Nations Series in termini di difesa e di exits dai propri 22 metri è ciò che in questo momento li pone meritatamente al di sopra di squadre come il Giappone, la Georgia, il Galles (ma anche le Fiji, malgrado ci precedano nel ranking) e allo stesso livello in questi aspetti di Australia e Inghilterra.
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In particolare gli Azzurri hanno dimostrato la capacità di imporre la propria fisicità su una delle squadre più capaci al mondo nel portare avanti l’ovale. Tranne occasionali sbavature, il sistema ha resistito all’urto di una delle squadre offensivamente più forti del mondo. Certo, ha collaborato il freddo della notte torinese, che ha reso più difficile tenere la palla saldamente tra le mani, ma 12 placcaggi dominanti contro gli All Blacks vanno pur sempre fatti, in una squadra che con Ardie Savea e Wallace Sititi era stata capace di distruggere ogni resistenza.
MONTYYY IOANEEEE salva una meta! 🔥🔥🔥
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— Autumn Nations Series (@autumnnations) November 23, 2024
L’Italia è stata inoltre eccellente nel punto d’incontro difensivo. Ha messo grande pressione fisica anche in questo caso, ed è stata capace di andare a pescare un bel numero di palloni: due recuperi per Federico Ruzza, due per Tommaso Menoncello, uno per Danilo Fischetti, uno per Dino Lamb. La qualità del possesso degli All Blacks è sempre stata medio-bassa proprio grazie a questo lavoro ed è una grande notizia che l’intensità di questo lavoro non abbia bruciato tutta la benzina nel serbatoio, consentendo alla squadra di continuare a imporsi con continuità.
In termini di gestione delle uscite, gli Azzurri hanno alternato alcuni utilizzi del pallone al piede immediati, ma nella maggior parte delle circostanze hanno avuto la lucidità di allentare la pressione uscendo dal proprio campo secondo i propri termini. Consci che lasciare rimessa laterali nel proprio campo agli avversari sarebbe stato molto pericoloso, l’Italia ha accettato di giocare qualche fase dai propri 22 metri per avanzare prima di utilizzare il piede sempre in campo e sempre con calci contestabili, in modo da permettere alla diga difensiva di posizionarsi e non lasciare agli All Blacks i palloni di contrattacco dove Tele’a, Jordan, Clarke, Barrett e compagnia diventano imprendibili.
Si poteva addirittura fare meglio delle quattro mete subite, ma qualsiasi tifoso onesto, alla vigilia della partita, non avrebbe scommesso sulla possibilità degli Azzurri di subire così pochi punti dal miglior XV possibile degli All Blacks. E se si conta che un paio di sviste dell’arbitro Pierre Brousset hanno agevolato il lavoro ai neozelandesi in occasione delle mete di Jordan (chiaro il tocco di Tele’a sul box kick di Page-Relo, la rimessa laterale da cui nasce la seconda meta è per gli Azzurri) e Tele’a (assegna un vantaggio agli Azzurri nella mischia ordinata a cinque metri, sta per fischiare il calcio, tranne poi rinunciare quando Perenara gioca la palla), la qualità del lavoro dell’Italia emerge ancora più chiaramente.
Il termometro dell’Italia
Pur avendo raggiunto dei picchi davvero molto alti nel livello di qualità della propria fase di non possesso, gli Azzurri sono stati messi brutalmente sotto nelle fasi ordinate e non sono riusciti a giocare quasi nessuno dei possessi offensivi ottenuti.
Tantissimi gli errori commessi, qualcuno dovuto alla grande pressione imposta dagli avversari, ma altri piuttosto gratuiti.
Sono gli aspetti della prestazione che sono stati insufficienti. In mischia ordinata era legittimo attendersi una serata difficile per i colori azzurri, dato che la mischia neozelandese ha saputo produrre molto durante tutto l’anno, ma nessuna squadra è stata distrutta come quella italiana.
Sicuramente gli All Blacks sono stati capaci di giocare su alcune situazioni, come nel caso delle legature anticipate di Lomax e De Groot che prendevano posizione con il braccio esterno già prima della chiamata lega dell’arbitro, garantendosi così una posizione migliore. Altrettanto certa è stata la difficoltà dell’Italia, che dopo un inizio difficile è riuscita ad arginare i danni nella seconda metà del primo tempo, ma che poi è affondata definitivamente nella ripresa. L’impressione è che non sia stato possibile contrastare la concentrazione della spinta del tallonatore e del pilone sinistro All Blacks sulla gamba interna del pilone destro italiano, ma è un giudizio basato sulle immagini televisive che spesso raccontano una storia soltanto parziale.
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Alzare la qualità della rimessa laterale con Lamb e Ruzza affiancati non ha invece pagato i dividendi attesi. Se l’Italia ha difeso in maniera molto buona, portando via più di un pallone agli avversari, non è riuscita però a portare giù in modo pulito qualche pallone importante in attacco. Merito di una difesa neozelandese di grande qualità, ma anche di qualche occasionale sbavatura azzurra: un paio di blocchi di salto colpevolmente lenti a salire, un paio di lanci che non hanno il giusto tempo rispetto al blocco di salto.
E poi l’incapacità di mantenere il possesso per tutto il primo tempo: ogni singolo pallone avuto è andato perso entro la terza fase per un in-avanti o per un punto d’incontro messo in discussione. Nelle primissime battute dell’incontro l’Italia recupera ben 3 possessi intorno ai 22 metri avversari, ma vengono tutti vanificati immediatamente, uno dopo l’altro. In questo Martin Page-Relo ha avuto un inizio di gara davvero difficile, collezionando un errore dietro l’altro.
A inizio ripresa la grande occasione per riaprire la partita. Ruzza arriva a un metro dalla linea dopo il break della premiata ditta Capuozzo-Ioane, Lamb arriva davvero a centimetri dallo schiacciare, ma quando si riparte dal calcio di punizione nell’angolo del campo l’Italia è costretta ad andare a giocare una rimessa laterale a 5 metri contro la miglior difesa del drive di tutto il panorama internazionale e le cose non finiranno bene. La giocata speciale con il blocco di salto in cui Menoncello è alzatore da davanti di Nacho Brex, che poi deve spostare su tutti gli avanti alle sue spalle per impostare la maul finisce in un pasticcio, la successiva maul viene divorata dagli avanti in maglia nera. La mischia che ne segue è appannaggio degli All Blacks.
La prestazione dell’Italia è quindi da una parte eccellente: se sono capaci di difendere così gli Azzurri si rendono competitivi in ogni gara del Sei Nazioni. Dall’altra insufficiente: con tutti questi errori gestuali, che si sono ripetuti nel corso del mese di novembre, e questa sofferenza in mischia ordinata e rimessa laterale diventa davvero difficile vincere partite importanti.
Come si fa allora a tirare le somme? Un buon termometro è la faccia di Gonzalo Quesada in conferenza stampa. Dopo la vittoria contro la Georgia gli occhi brillanti e vispi del capo allenatore dicevano, a ragione, di una prestazione più soddisfacente di quanto il risultato non raccontasse. A Torino, sabato sera, la faccia era tirata in una espressione di frustrazione, consapevole del fatto che con qualche dettaglio in più l’Italia poteva chiudere il novembre con un risultato storico. Non necessariamente una vittoria contro gli All Blacks, ma magari con il miglior risultato di sempre contro di loro dimostrando di poter davvero competere con una delle migliori 3 squadre al mondo.
Per ottenere qualcosa di storico l’appuntamento è rimandato al Sei Nazioni. Anche senza aver stupito il mondo, cosa che ormai l’Italia si è un po’ dolcemente invaghita di fare (Cardiff 2022, Australia 2022, Sei Nazioni 2024), gli Azzurri hanno messo le fondamenta per poter realizzare qualcosa di importante tra due mesi o poco più.
Lorenzo Calamai
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